Il problema del valore d’uso in Toni Negri

— Bollettino Culturale

Il valore d’uso è un concetto che appare formulato da Karl Marx come uno dei due fattori della merce nella sua critica dell’economia politica classica e dell’uso che ne fece Hegel nella sua famosa Filosofia del diritto.

Il concetto ha avuto un destino sfortunato in tutta la storia della corrente politica che ha rivendicato l’eredità di Marx. Sebbene come concetto sembri in via di sviluppo nei Grundrisse, un testo scritto nel 1857, sarà nel Capitale, in particolare nel suo primo volume, quello che Marx vide pubblicato ancora in vita, dove ci fornirà la linea tracciata della dicotomia valore/valore d’uso da sviluppare.

La tradizione politica del marxismo che seguì alla morte del fondatore non prestò molta attenzione al concetto in questione. La prima grande generazione di marxisti come Lenin, Rosa Luxemburg o Gramsci, aveva una preoccupazione che possiamo definire di natura politica, centrata sui problemi dello Stato, della rivoluzione o della costruzione del partito politico come soggetto collettivo. Il Capitale appariva piuttosto come un testo di “economia” che doveva essere aggiornato secondo le nuove tendenze che si osservavano. Questa è la fonte della riformulazione luxemburghiana dei cosiddetti schemi di riproduzione del capitale, del lavoro di Lenin sul capitale finanziario/imperialismo e del tentativo di Gramsci di comprendere il significato politico, culturale ed egemonico dell’americanismo come nuova concezione della vita.

Alcune delle correnti del marxismo che hanno raggiunto una maggiore diffusione erano apertamente contrarie allo studio del problema del valore d’uso. Forse il caso più emblematico è rappresentato dal marxista americano Paul Sweezy, per il quale: 

“Marx escluse il valore d’uso (o, per adottare la terminologia attuale, “ l’utilità ”) dal campo di indagine dell’economia politica, per la ragione che esso non incorpora direttamente un rapporto sociale. Egli sottolinea l’esigenza fondamentale che le categorie dell’economia siano categorie sociali, cioè categorie che rappresentano rapporti fra esseri umani. È importante rendersi conto del fatto che questa posizione è in netto contrasto con l’atteggiamento della teoria economica moderna […] »”. 

Il disprezzo per il problema del valore d’uso è così forte che il resto dei concetti che Marx sviluppa nei primi capitoli della sua opera principale – il lavoro astratto, per esempio – perde una presenza centrale. Questo porta Sweezy a pensare al problema del feticismo delle merci, ma in modo così limitato che riesce solo a presentarlo come un problema di ideologia e più specificamente di falsa coscienza:

“Nella sua dottrina del feticismo della merce, Marx è stato il primo a percepire questo fatto e rendersi conto della sua importanza decisiva per l’ideologia dell’età moderna.”  

Secondo questa lettura, il valore d’uso non conferisce alla merce alcun carattere particolare. Gli oggetti per il consumo umano in ogni momento e in qualsiasi forma di società hanno lo stesso valore d’uso. Il valore d’uso esprime alcune relazioni tra il consumatore e l’oggetto consumato. L’economia politica, invece, è una scienza sociale, cioè delle relazioni tra uomini. Ne consegue che il valore d’uso in quanto tale è al di fuori del campo della ricerca dell’economia politica. Marx escludeva il valore d’uso, o quello che corrisponderebbe alla nozione odierna di utilità, dalla sfera della ricerca dell’economia politica perché non incarna direttamente una relazione sociale.

Insomma, viene riproposto un vecchio argomento (Marx credeva che il valore d’uso non fosse un oggetto di ricerca) ed equiparato il problema del valore d’uso a quello dell’utilità. Peggio ancora, lo limita nel senso che non c’è nemmeno un rapporto sociale poiché si parla di un consumatore e un oggetto da consumare. Per finire, viene preso il valore d’uso non nel capitalismo ma nella produzione semplice mercantile. È chiaramente una visione che rompe con l’ordine metodologico di Marx, che si gioca nel campo della logica concettuale senza trascurare la storicità delle categorie. Ciò che appare in Marx come una diacronia, in queste correnti del marxismo appare come il dominio della linearità. Daniel Bensaid lo dice molto chiaramente in La Discordance des temps: essais sur les crises, les classes, l’histoire quando spiega perché Marx inizia con la merce:

“Non perché precederebbe cronologicamente il capitale, ma perché è il riassunto e l’ologramma. La prima sezione del libro I articola due discorsi e due temporalità, logiche e storiche, in cui l’una corregge e contraddice incessantemente l’altra. Non si tratta di un ordine mercantile capitalista o di un capitalismo realmente esistente, ma di un capitalismo virtuale, senza capitale.”

La tradizione del marxismo dell’Occidente che in larga misura ha aperto, nel XX secolo, alla possibilità di pensare al valore d’uso è coincisa con l’opera di Roman Osipovič Rozdol’s’kij sulla genesi del Capitale. Rozdol’s’kij apre il suo terzo capitolo sottolineando proprio l’insufficienza che Marx ha notato rispetto a David Ricardo riguardo al problema del valore d’uso. Per Rozdol’s’kij: “questo rilievo critico, (…) colpisce non solo Ricardo, ma molti discepoli dello stesso Marx”. Nella sua argomentazione viene sottolineata l’importanza di cosa significhi evitare il problema del valore d’uso, soprattutto perché ciò che gli interessa è salvare il ruolo svolto da questa categoria in quello che è considerato il punto centrale della teorizzazione di Marx: l’apparizione del plusvalore. Tant’è che “…nello scambio fra capitale e lavoro, è proprio il valore d’uso della merce acquistata dal capitalista (la forza lavoro) che costituisce il presupposto del processo di produzione capitalistico e dello stesso rapporto capitalistico, perché, in questa transazione, il capitalista riceve in cambio una merce il cui consumo «coincide immediatamente con l’oggettivazione del lavoro e quindi con la generazione del valore di scambio»”. In altre parole: non c’è posto per il capitalismo se non c’è valore d’uso. Mentre in altre teorie il valore d’uso sembra essere riferito a un concetto di utilità o preferenze individuali, con Rozdol’s’kij il valore d’uso è la pietra angolare per l’inizio della relazione sociale del capitale e l’espansione del valore di scambio e del valore, così come la comparsa del plusvalore:

“Dunque, se la creazione di plusvalore, in quanto aumento del valore di scambio del capitale, viene dedotta dallo specifico valore d’uso della merce forza lavoro, d’altra parte l’economia politica deve limitare la parte di valore prodotto spettante all’operaio ad un equivalente dei mezzi di sussistenza necessari al suo mantenimento (in senso lato) e perciò, in sostanza, farla determinare dal valore d’uso.”

Rozdol’s’kij ha aperto in gran parte una linea di ricerca che è stata sviluppata nelle opere del marxismo italiano da intellettuali come Toni Negri, Rodolfo Banfi e Marina Bianchi. Parliamo di quest’ultima autrice che ritorna al ruolo centrale che la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio gioca nel marxismo – o dovrebbe svolgere. Per lei, nella riflessione contemporanea, il ruolo del valore d’uso è “dimenticato” nell’analisi del capitalismo, per questo rivendica “il ruolo fondamentale del valore d’uso nell’analisi di Marx”. Consapevole della tradizione classica, Bianchi indica che nell’economia classica il valore d’uso è stato naturalizzato e quindi trascurato, poiché considerato come presupposto dell’analisi del valore di scambio: “I prodotti del lavoro, le merci, i valori d’uso sono naturalmente merci, merci prodotte per lo scambio”.

Questa naturalizzazione del valore d’uso come presupposto del valore di scambio ha portato al suo progressivo oblio, che porta a non instaurare un rapporto tra lavoro concreto e lavoro astratto. Nella sua argomentazione, il valore di scambio è l’omogeneizzazione quantitativa della società che reprime la specificità qualitativa. È indubbiamente un passo avanti rispetto ad altre analisi, perché concepisce la dicotomia non in modo naturalizzato o presupposto, ma come “opposizione dei due poli”. Opposizione che diventa negazione nella forma-valore che tende alla relazione quantitativa su quella qualitativa. Questa relazione definisce anche una forma di socialità, che si colloca come un problema tra l’individuo e il sociale. Il lavoro che crea valore è sociale, indifferenziato, autonomo, astratto, rispetto alla ricchezza che il valore d’uso rappresenta nella sua caratterizzazione come lavoro concreto, come segue:

“La “socialità”, cioè il raggiungimento dell’equilibrio sociale, la costituzione della sostituzione organica materiale non è un “dato”, il bilancio razionale e pianificato da cui è costituito il rapporto sociale, ma, al contrario, si tratta del “risultato” di relazioni sociali contraddittorie e antagoniste”.

Mi sembra che il successo di Bianchi stia in larga misura nell’uscire dalla discussione sulla trasformazione dei valori in prezzi come meccanismo puramente artificiale, dove Marx sarebbe una continuazione dell’economia classica, ma anche nell’insistere sul fatto che la problematizzazione del valore d’uso non può essere esente dal suo carattere contraddittorio o di opposizione. Bianchi è debitrice a Rozdol’s’kij, tuttavia la sua lettura sarà contemporanea a quella di Toni Negri che propone una sua problematizzazione del valore d’uso, molto importante per la sua portata in termini teorici.

Toni Negri entrerà in un dialogo franco con il lavoro di Rozdol’s’kij, prendendone le distanze in larga misura. Nei suoi corsi a Padova negli anni ’60 ha proposto una rivalutazione dei Grundrisse. A differenza del lavoro di Rozdol’s’kij, per Negri il nucleo centrale dell’esposizione della teoria del valore, come teoria dell’antagonismo sociale, si trova non nel Capitale, ma in questi manoscritti “preparatori”. Questo perché il denaro appare in loro come rappresentante del valore nella sua univocità più cruda e reale: “Non ho bisogno di affondare le mani nello hegelismo per scoprire la doppia faccia della merce, del valore: il denaro ha una sola faccia , quella del padrone”. Metodologicamente ciò ha una grande conseguenza, poiché Negri considererà che il Marx qui mostrato ha la grande virtù di non essere un hegeliano confuso che inizia la sua esposizione con la merce e una forma di riproduzione della vita sociale che potrebbe essere confusa con una “riproduzione semplice”. Al contrario, nei manoscritti del 1857 Marx non si ferma a questo e, argomentando contro il socialismo utopico, riesce a dimostrare l’immediatezza dell’antagonismo sociale:

“Mi sembra che il nesso valore-denaro immediatamente proposto concretizzi la tematica del valore come mai altrimenti a Marx è avvenuto. Il passaggio dalla forma-denaro alla forma-merce, dai Grundrisse al Capitale, aggiunge solo astrazione e confusione,-è un metodo più idealista, più hegeliano, malgrado ogni intenzione e dichiarazione in contrario, quello che l’attacco sul problema della merce determina.”

Questa superiorità del modo in cui si pone il problema del valore, che in Rozdol’s’kij appariva ancora come un’insufficienza, è ciò che porta Negri ad affermare che “la legge del valore è presentata, non solo mediatamente ma, immediatamente, come legge dello sfruttamento”. Il denaro, per Negri, assumerà in questi testi di Marx una forma così immediata rispetto allo sfruttamento proprio perché è l’equivalente generale di un rapporto tra disuguali. Là dove il capitalista usa il denaro nel primo momento di circolazione, è per riaffermare il suo posto privilegiato: “Il rapporto di sfruttamento è il contenuto dell’equivalente monetario: meglio, questo contenuto, non potrebbe essere esposto”. Andando avanti nella sua presentazione, lo stesso Negri si imbatterà nel problema del valore d’uso:

“Marx, di fronte alla categoria del valore, applica il metodo: insiste sulla dialettica dell’unità e della differenza che definisce il valore. La differenza del valore si presenta come valore d’uso. Ma “il valore d’uso rientra nel suo ambito [dell’economia politica], non appena viene modificato dai moderni rapporti di produzione”, quindi praticamente. Il momento in cui si riduce all’unità del processo”

In Negri, la totalità del processo di riproduzione sociale apparirà come campione del funzionamento dell’antagonismo sociale, questo è importante perché indica che nell’unità – la totalità – stessa c’è un processo continuo di rottura o scissione. E il valore d’uso integrato nella totalità capitalista è uno di quei momenti di rottura: “anche il valore d’uso e il valore di scambio si dividono immediatamente”. Quello che segue dalla sua costruzione sarà il tentativo di verificare questo elemento:

“Cos’è l’antagonismo? Consiste nel fatto che il capitale deve ridurre al valore di scambio quello che è valore d’uso per il lavoratore” e “l’opposizione si presenta in due forme: in primo luogo, valore di scambio contro valore d’uso, ma – poiché l’unico valore d’uso del lavoratore è la capacità di lavoro indifferenziata e astratta – l’opposizione è anche lavoro oggettivato contro lavoro soggettivo”.

Per Negri, il punto centrale dell’antagonismo si trova qui, all’interno del processo stesso di unità capitalista, o nella totalità del processo di produzione. C’è il germe di ogni successivo conflitto di classe, dato da questa discontinuità del processo: “La separazione del lavoro come capacità, come valore d’uso immediato è radicale: il rapporto con il valore di scambio e, di conseguenza, con il potere di comando, con la proprietà, con il capitale, e immediatamente forzata”. Il capitale diventa valore di scambio quando appare come potere di comando, come proprietà, in un momento sviluppato come capitale produttivo. Ma questo processo non sarebbe possibile senza il denaro come momento costitutivo precedente, ecco perché il denaro ha il volto esclusivamente del padrone. Non è mediazione, ma apertamente la forma di espressione del valore, dello pseudo soggetto che domina e trasforma il vivente in oggettivo e morto: la capacità di lavorare. All’interno della totalità c’è questa scissione, perché “il lavoro come soggettività, come fonte, come potenziale di ogni ricchezza” si scontra con ciò che è ricchezza oggettivata, lavoro morto. Due poli autonomi che si fronteggiano nello scambio danno vita al processo di antagonismo. Negri porta alle sue ultime conseguenze politiche e in termini di antagonismo di classe il valore d’uso:

“Ci vuole davvero ignoranza o assolutamente malafede per ridurre il “valore d’uso” (nel senso marxista) a un residuo o un’appendice dello sviluppo capitalistico. Qui il valore d’uso non è altro che la radicalità dell’opposizione operaia, la potenzialità soggettiva e astratta di ogni ricchezza, la fonte di ogni possibilità umana.”

È all’interno della totalità che ha sussunto i poli antagonisti che apparirà “il valore di scambio che diventa autonomo in denaro e capitale, dall’altra il valore d’uso che diventa autonomo come classe operaia”. Non c’è dubbio che Negri sia quello con le maggiori possibilità di problematizzare il concetto di valore d’uso nella sua accezione più politica e immediata. Il valore d’uso è la classe operaia che gli si oppone, che cerca l’autonomia. Va notato che non parla di valore d’uso come forza lavoro, perché se lo facesse parlerebbe del lavoro sussunto e senza possibilità di autonomia.

Quello che dice Negri è un’altra cosa, in questa divisione della totalità ci sono due vie: il denaro che rappresenta il valore di scambio e il potere dispotico borghese, oppure il valore d’uso che è la classe operaia non come stabilito dal capitale – non come forza lavoro – ma come piena soggettività, come potenzialità, come antagonista per eccellenza. Tuttavia, va oltre. Perché il passo successivo nella sua argomentazione è il problema della crisi, la cui spiegazione è immediatamente data dall’antagonismo: “la caduta tendenziale del saggio di profitto presenta il volto della rivolta del lavoro vivo contro il potere del profitto, della propria costituzione separata, della rapina e del consolidamento della rapina nella forza produttiva del padrone contro la forza produttiva del lavoratore, nel potere del capitale sociale contro la vitalità del lavoro sociale: attraverso questo il lavoro vivo è distruttivo.”

Negri in realtà cerca di spiegare questa rottura all’interno della totalità, dove la classe operaia è assunta contro il lavoro morto, contro il potere dispotico del capitale e la sua materializzazione. In realtà, non c’è molta differenza tra il suo concetto di classe operaia, come classe che è in lotta, e il concetto di lavoro vivo. La sua relazione con il valore d’uso è data dall’antagonismo sociale. Dice quindi che c’è una dinamica di potere.

“Di potere: perché in realtà il valore d’uso è per il proletariato rivendicazione e pratica immediata del potere. Il lavoro necessario può essere definito – sia pure in modo astratto – solo attraverso categorie di potere: rigidità, irreversibilità, rivendicazioni, volontà insorgente e sovversiva. Valore d’uso.”

L’analisi del valore d’uso di Negri è forse una delle più ricche, in quanto è possibile incidere sul dibattito teorico per sostenere la centralità del soggetto all’interno del processo di riproduzione sociale.

 

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