«Il Capitale nel XXI secolo» di Piketty: una critica

— Bollettino Culturale, 1 gennaio 2021

Il capitale nel XXI secolo è uno dei libri più importanti dell’economista francese Thomas Piketty. La maggior parte dei commenti al libro di Piketty finiscono per associarlo, in qualche modo, con l’altro Capitale, di Karl Marx, trovando commentatori che pensano che sia una continuazione o un “aggiornamento” delle proposizioni marxiane. Questa associazione è del tutto sbagliata, anche se, in alcuni momenti, è stata incoraggiata dallo stesso autore (come sembra indicare il titolo stesso). La sua accettazione presuppone la completa cancellazione della teoria sociale di Marx. La critica contenuta nei brevi commenti che seguono si muoverà intorno a questo punto per cercare di evidenziare alcuni dei principali risultati di Piketty, nonché i limiti fondamentali della teoria contenuta nel suo libro, in ciò che dice rispetto alla sua capacità di spiegare la società capitalista contemporanea.

Lo studio di Piketty sull’evoluzione della disuguaglianza patrimoniale (poiché si riferisce alla disuguaglianza dal punto di vista della proprietà dei “beni” in generale) è il più grande mai realizzato, utilizzando un enorme database. I risultati empirici di questo studio sono il principale risultato scientifico raggiunto da Piketty e dal suo team e rappresentano l’aspetto più positivo del loro lavoro. 

Proprio per questo motivo, questa è stata la parte del libro che ha ricevuto le recensioni più negative dagli economisti “ortodossi” e dai portavoce dei padroni in generale, assieme alla sua proposta di “imposta sul capitale” e sulle successioni. In termini generali, i dati forniti da Piketty mostrano che la società capitalista ha sempre avuto la tendenza ad aumentare la concentrazione della ricchezza. Sebbene queste conclusioni sembrino ovvie, è probabile che causino una vera e propria catastrofe all’interno dell’economia ortodossa, e forse dell’economia borghese in generale, con la demolizione della cosiddetta curva di Kuznets.

La curva di Kuznets è uno dei principali costrutti teorici su cui si è finora basata l’ortodossia economica. La sua ispirazione viene dagli studi condotti, a partire dagli anni ’30, da Semën Abramovič Kuznec (anglicizzato in Simon Smith Kuznets), il quale, analizzando dati tratti dagli archivi del fisco degli Stati Uniti e del Regno Unito, concluse che sarebbe stato possibile osservare, negli anni analizzati (1913-1948), una tendenza a ridurre le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, dopo aver mostrato un certo aumento delle disuguaglianze all’inizio del periodo (che sarebbe espresso graficamente con una “U invertita”). Nonostante affermasse categoricamente che i dati puntassero in questa direzione per l’economia statunitense durante il periodo in esame, Kuznec è stato molto cauto su ogni possibilità di generalizzare questa (possibile) tendenza, anche per l’economia statunitense.

Tuttavia, il lavoro di Kuznets, pubblicato negli anni ’50, è stato accolto dalla corrente economica liberale come prova definitiva che il capitalismo sarebbe stato un efficace riduttore della disuguaglianza. Dopo aver presentato le conclusioni del proprio lavoro, altri economisti hanno cercato di estrarre da esso, in modo capzioso, una sorta di “teoria generale” dell’evoluzione della distribuzione della ricchezza (chiamata da loro “distribuzione del reddito”), che si riassumerebbe in una tendenza a ridurre le disuguaglianze poste dallo sviluppo capitalista moderno. La disuguaglianza di ricchezza, ovunque, tenderebbe ad aumentare nelle prime fasi di sviluppo ed a diminuire dopo aver raggiunto un certo livello. L’espressione grafica di questo processo mostrerebbe una sorta di “U rovesciata”, con un vertice di disuguaglianza e concentrazione, seguito da una tendenza verso una migliore distribuzione della ricchezza.

Tra queste opere che nei decenni successivi avrebbero cercato di formulare “spiegazioni” per questa tendenza generale presumibilmente “scoperta” con la curva di Kuznets, si possono trovare The Stages of Economic Growth: A non-communist manifesto di W. W. Rostow, oppure i più recenti lavori del duo Acemoğlu e Robinson, che, anche nel lavoro di Piketty, sono stati presentati come i protagonisti di un certo “istituzionalismo” da cui venivano continuamente prescritte tutta una serie di “buone pratiche” e “buone istituzioni” per i paesi in via di sviluppo. In comune tra queste teorie c’è un tentativo di spiegare la curva di Kuznets, cioè di spiegare le cause di uno sviluppo industriale che distribuisce ricchezza, come si suppone accadrebbe nei paesi capitalisti industriali, nonché le ragioni della miseria dei paesi del Terzo mondo, che deriverebbero dal fatto che non avrebbero riprodotto adeguatamente le fasi osservate nei paesi capitalisti industrializzati. In altre parole, anche sulla base di una generalizzazione capziosa di una tendenza il cui stesso autore credeva “speculativa al 95%”, la curva di Kuznets è diventato uno dei fondamenti principali di molte analisi sulla distribuzione e sullo sviluppo capitalistico, diventando uno dei pilastri di un’economia apologetica del capitalismo.

I risultati di Piketty trasformano la curva identificata da Semën A. Kuznec all’inizio del XX secolo in parte di una curva più ampia, in cui la tendenza evidente indicherebbe un aumento delle disuguaglianze e il periodo di “convergenza” o deconcentrazione della ricchezza, osservato da Kuznec, sarebbe un’eccezione. Secondo Piketty sarebbe possibile individuare, nei principali paesi “sviluppati”, nel corso dei secoli XVIII e XIX, e dopo il 1970-80, una tendenza alla concentrazione della ricchezza, ad eccezione del periodo di ripresa economica dei due dopoguerra. In questi due periodi, secondo Piketty, una combinazione di alti tassi di crescita economica e demografica avrebbe reso possibile una situazione senza precedenti nella storia, cioè un periodo di riduzione delle disuguaglianze patrimoniali.

Per avere un’idea della situazione attuale Piketty mostra che la partecipazione del 10% più ricco alla ricchezza nazionale totale è già superiore al 70% negli USA e nel Regno Unito o al 60% in Francia, Germania e Italia, mentre il 50% dei più poveri detengono circa il 2% negli USA e il 4% in Europa. L’1% più ricco partecipa con più del 30% della ricchezza nazionale negli USA e il 25-30% nei paesi europei sopra elencati. Piketty presenta anche dati per diversi altri paesi, inclusi i paesi nordici, Cina, India e alcuni latinoamericani, come Argentina e Colombia. 

Se Piketty avesse riassunto il suo lavoro per pubblicizzare le sue scoperte, avrebbe dato un grande contributo alla scienza, distruggendo innegabilmente il presunto fondamento empirico di parte delle ideologie apologetiche presentate come “scienza economica” per quanto riguarda la questione della distribuzione. Tuttavia, Piketty, nel tentativo di spiegare le sue scoperte, ha scelto di costruire la sua ideologia che, nonostante tutto il valore dei dati su cui si basa, porta a una sorta di teoria dell’equilibrio generale. Questo finisce per mistificare il capitalismo, conferendo alle sue dinamiche una stabilità illusoria che consentirebbe di rimuovere dal capitale (rapporto sociale) ogni centralità nello spiegare la crisi del 2007-2008.

Crescita, stabilità e possibilità di un “ingiusto equilibrio”, con contraddizioni conciliabili: la teoria del capitalismo di Piketty

Prima di analizzare la teoria formulata dal Capitale di Piketty, è necessario prendere alcune precauzioni. In primo luogo, per evitare ingiustizie, è necessario riconoscere che Piketty adotta, diciamo, una certa “eleganza francese”, cioè rende le sue conclusioni molto relativistiche e indica sempre molti limiti delle sue costruzioni e proiezioni teoriche. Tuttavia, affinché la critica sia possibile, è necessario prendere come oggetto il risultato finale, cioè quelle costruzioni e proiezioni che sono quelle effettivamente adottate dall’autore. In secondo luogo, molte delle critiche qui evidenziate non sono specifiche del lavoro di Piketty, ma servono per gran parte della corrente dominante dell’economia, nelle sue varie sfumature. Infine, la terminologia di Piketty non verrà utilizzata. I termini da lui utilizzati, dopo essere stati presentati, saranno espressi da quello che intendiamo essere il suo vero contenuto. Questa procedura è giustificata per facilitare l’esposizione ed evitare la riproduzione di alcune confusioni che, apparentemente, derivano dai suoi concetti fluidi.

Prima di tutto, il concetto di capitale di Piketty: per lui il capitale è ricchezza in generale, più specificamente ricchezza patrimoniale, indipendentemente dal suo ruolo nel processo di produzione. In questo “capitale-ricchezza” c’è spazio per tutto ciò che può essere accumulato: edifici pubblici, case di proprietà usate come abitazioni, collezioni d’arte e persino gioielli di famiglia. Questo aspetto è stato molto commentato dalla critica, ma a quanto pare tutte le conseguenze non sono state ancora estratte dal punto di vista della coerenza interna e della capacità esplicativa della teoria risultante. Da questa nozione Piketty propone alcuni concetti e cerca di metterli in relazione.

Quello che Piketty chiama il rapporto reddito/capitale (espresso dalla lettera greca β), è in realtà un rapporto tra reddito nazionale e stock di ricchezza (lo chiameremo rapporto reddito/ricchezza). È la relazione tra il reddito nazionale (tutto il reddito di un paese durante un dato periodo) e tutta la ricchezza accumulata, misurata in anni (cioè, la ricchezza accumulata nel paese a può essere equivalente a n anni di reddito nazionale). Maggiore è questo rapporto, maggiore è la quantità relativa di ricchezza accumulata in un dato paese.

La cosiddetta quota di reddito da capitale sul reddito nazionale (espressa dalla lettera greca α), che di fatto (e nonostante il nome) è la parte del reddito nazionale che diventa ricchezza patrimoniale (il capitale di Piketty), cioè che non viene consumato (si noti che questa quota può derivare da salari, profitti, interessi, qualsiasi tipo di reddito). Per esclusione, si percepisce che per Piketty, “guadagni da lavoro” sono tutti quelli che non hanno visto ricchezza, cioè che vengono consumati (che a quanto pare include tutte le spese improduttive dei capitalisti, purché non diventino “patrimonio”).

Il più controverso, il tasso di rendimento del capitale (espresso dalla lettera r). Secondo Piketty, il suo «tasso di rendimento del capitale misura il rendimento del capitale in un anno, indipendentemente dalla sua forma giuridica». Se consideriamo il concetto di capitale di Piketty, possiamo concludere che il suo tasso di rendimento è una sorta di “tasso di crescita della ricchezza”. Questo è ciò che Piketty sembra mostrare quando afferma che si tratta di una nozione molto diversa del saggio di profitto di Marx e di molte altre teorie. Tuttavia, quando Piketty calcolerà effettivamente questo tasso di rendimento per i paesi che analizza (quelli “sviluppati”), adotta una procedura apparentemente molto ristretta per il suo concetto di capitale “ricchezza”, e, come minimo, dovrebbe essere dimostrata la sua idoneità.

Per il momento, è importante precisare che le quote di capitale e i tassi di rendimento medio indicati nei grafici 6.1-6.4 sono stati calcolati sommando l’insieme dei redditi da capitale registrati nei bilanci nazionali (quale che sia il loro titolo giuridico: affitti, profitti, dividendi, interessi, royalty ecc., a eccezione degli interessi del debito pubblico, al lordo dell’imposta) e poi dividendo l’aggregato per il reddito nazionale (ottenendo così la quota di capitale che va a comporre il reddito nazionale, denominata α) e per il capitale nazionale (ottenendo così il tasso di rendimento medio del capitale, denominato r). Per come è stato ottenuto, il tasso di rendimento medio aggrega dunque rendimenti di attivi e investimenti assai diversi tra loro: l’obiettivo, in realtà, è sapere quanto rende in media il capitale in una società considerata nel suo complesso, al di là delle differenti situazioni individuali. È chiaro che, rispetto alla media, certe persone riescono a far rendere meglio i propri investimenti mentre altri riescono a farli rendere meno bene. Prima di studiare la ripartizione del rendimento individuale in merito al rendimento medio, è perciò indispensabile cominciare con lo stabilire a che livello si situa la media in questione.

T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, pag. 213

Ad ogni modo, si osserva che utilizzando questa procedura (che ignora anche le tasse e riduce “il tempo impiegato dai capitalisti per gestire la loro ricchezza”) Piketty calcola che il tasso di rendimento del suo capitale-ricchezza è variato dal 4 al 5% nel XVIII e XIX secolo, e attualmente è compresa tra il 3 e il 4%. 

Prima legge del capitale (α = r × β). È una mera identità contabile, a-storica, dove per costruzione i concetti sopra descritti sono correlati (cioè non è una vera “legge del capitale”). Indica che la quota di reddito nazionale che diventa ricchezza patrimoniale (α) è equivalente al “tasso di accumulazione della ricchezza” (r) moltiplicato per il rapporto reddito/ricchezza (β). Apparentemente, la funzione di questa “legge” nella teoria di Piketty è di mettere in relazione i suoi concetti con la ragione (β), che sarà poi correlata al risparmio e ai tassi di crescita.

Seconda legge del capitale (β = s / g). Questa legge, apparentemente derivata da una serie di ipotesi adottate da Piketty, significa che il rapporto reddito/ricchezza, per l’autore, è una funzione del rapporto tra tasso (s) di risparmio e tasso di crescita (g – che include la crescita del prodotto (output) e crescita demografica). Piketty afferma che questa legge non è una mera identità contabile, ma «rappresenta uno stato di equilibrio verso il quale un’economia tenderà se il tasso di risparmio è ‘s‘ e il tasso di crescita è ‘g‘». Insomma, quello che Piketty sta dicendo con questa legge è che, visti i tassi di risparmio e di crescita e le altre ipotesi viste in precedenza, sarà possibile prevedere un rapporto reddito/ricchezza, cioè un livello di disuguaglianza di ricchezza di equilibrio in una data economia. Infine, Piketty utilizza le funzioni di produzione aggregata per spiegare quale sarebbe, a suo avviso, la ragione per mantenere i tassi di crescita e la loro “relativa indipendenza” nell’evoluzione della distribuzione.

Egli stima, sulla base delle caratteristiche del progresso tecnico nel XX secolo, che l’elasticità di sostituire il lavoro con il capitale nel XXI secolo sarà da qualche parte tra 1,3 e 1,6. In concreto, Piketty sta dicendo che, a causa delle caratteristiche del progresso tecnico (capricci della tecnologia), il tasso di rendimento del suo capitale-ricchezza non sarà sostanzialmente influenzato dalla concentrazione della ricchezza fino a quando “non c’è più da comprare”. Allo stesso tempo, Piketty sembra presumere che anche i tassi di crescita non siano influenzati dall’aumento della concentrazione della ricchezza, per ragioni che non vengono mai dimostrate. Poiché i tassi di rendimento, la crescita e il risparmio non saranno sostanzialmente influenzati da fattori come la distribuzione e l’occupazione, ma fondamentalmente solo dalla tecnica, solo un livello molto alto di concentrazione può produrre un “equilibrio”.

In altre parole, poiché il tasso di rendimento (e quindi i tassi di risparmio e crescita) non sarà sostanzialmente influenzato dall’aumento della concentrazione della ricchezza, allora sarebbe possibile prevedere lo stato di “equilibrio” della distribuzione fondamentalmente basandosi su stime delle possibilità di nuovi utilizzi del capitale poste dalle caratteristiche del progresso tecnico. A questo “equilibrio” corrisponderebbe un’altissima concentrazione di reddito (molto superiore a quello attuale) nei paesi “sviluppati”. Emerge così il già famoso rapporto “r > g”: poiché in questi paesi le “proiezioni” (completamente esterne alla teoria, si sottolinea) sono lo stazionamento demografico, la bassa crescita del prodotto (output) e il mantenimento del tasso di risparmio, e come il tasso di rendimento del capitale-ricchezza non sarebbe sostanzialmente influenzato dall’evoluzione della distribuzione (maggiore concentrazione della ricchezza) su un lungo periodo, quindi fatalmente il tasso di rendimento (r), che attualmente sarebbe compreso tra il 3 e il 4%, rimarrebbe più alto rispetto al tasso di crescita (g), al fine di portare a una maggiore concentrazione di ricchezza per gran parte del XXI secolo.

Piketty giunge quindi alle sue conclusioni sulle dinamiche del capitalismo: è un sistema stabile ed efficiente per promuovere lo sviluppo e la crescita della ricchezza, ma, salvo in situazioni eccezionali come nel dopoguerra, genera la concentrazione di questa ricchezza. L’instabilità generata dalla frustrazione degli strati più poveri per la concentrazione della ricchezza potrebbe portare a due vie d’uscita, in termini storici: a) crescente malcontento tra gli strati più poveri e, quindi, instabilità politica e possibilità di “rivoluzioni”; b) espansione coloniale dei paesi sviluppati. Per placare il malcontento, evitando nel contempo nuove guerre “neocoloniali”, sarebbe poi necessaria una via d’uscita politica che aggiusti l’equilibrio distributivo a livelli più “sicuri”, un rimedio antifrustrazione per i poveri, che consentirebbe la stabilità politica insieme alla stabilità economica. Si sottolinea che la base teorica di tale possibilità verrebbe evidentemente dal riconoscimento dell’esistenza di un certo equilibrio tendenziale, che potrebbe poi essere adattato politicamente a livelli “più umani”.

Piketty, contrariamente a quanto sostiene, non deduce gli aspetti fondamentali della sua teoria da dati empirici, ma da stime da lui fatte, fortemente influenzate dalle sue ipotesi (spesso si tratta di ideologia dell’economia neoclassica). È il caso, ad esempio, della stima che, qualunque cosa accada, le possibilità di utilizzo del capitale data dai “capricci della tecnica” consentiranno ai “tassi di rendimento”, alla crescita e al risparmio di continuare senza alcuna influenza sostanziale della concentrazione di ricchezza per molto tempo. Non c’è nulla nel suo libro che giustifichi questa previsione, se non le “stime” fatte dall’autore. Per Piketty è possibile, ad esempio, mantenere previsioni di crescita dell’economia mondiale che sono state prodotte completamente indipendenti dalle sue previsioni in quanto si tratta della concentrazione della ricchezza, cioè per non considerare l’andamento della concentrazione da lui predetto, tutto questo sulla base di stime di “elasticità” di sostituzione del lavoro per il capitale che, secondo lui, sono elevate. Il risultato è che, per la teoria di Piketty, i rapporti sociali di produzione capitalistici diventano irrilevanti dal punto di vista di ciò che accade nell’economia, con le crisi e con la crescita (o la sua mancanza). Tutto è determinato dalle caratteristiche del progresso tecnico. Questo, a sua volta, è visto come qualcosa di completamente “neutro” e stabile. In secondo luogo, influenzerebbe anche la crescita demografica, che appare anche come un fenomeno indipendente, senza alcuna influenza sui rapporti di produzione.

Inoltre, cosa che può essere ancora più grave (dal punto di vista della coerenza interna), Piketty sembra tradire il proprio concetto di capitale quando calcola il tasso di rendimento “r” e la quota di capitale sui guadagni “α”, utilizzando una forma apparentemente molto più ristretta di quanto sembrerebbe appropriato. Piketty avrebbe bisogno, come minimo, di dimostrare l’adeguatezza di questa forma di calcolo al suo concetto. La strana forma di calcolo adottata da Piketty si traduce in un “tasso di rendimento” quasi stabile (varia, da tempo immemorabile, tra il 3 e il 6%), che si avvicina a una “legge di natura”. Ad un certo punto del libro, Piketty sembra dimenticare le differenze tra il suo tasso di rendimento e il saggio di profitto di Marx, cercando di sottolineare, con un’impressionante incomprensione della teoria sociale marxiana, che Marx avrebbe presumibilmente sbagliato nel prevedere una caduta tendenziale del saggio di profitto e, quindi, il carattere instabile e storico del modo di produzione capitalista. Nell’introduzione, Piketty attacca Marx e il marxismo, affermando che nelle sue tesi non ci sarebbe spazio per la possibilità che «progressi tecnologici duraturi e aumenti costanti della produttività genererebbero un contrappeso alla concentrazione del capitale», portando all’errata “previsione” (del marxismo) che:

Come Ricardo, Marx intende incentrare il proprio lavoro sull’analisi delle contraddizioni logiche connaturate al sistema capitalista. Aspira così a distinguersi sia dagli economisti borghesi (che vedono nel mercato un sistema autoregolato, ossia capace di equilibrarsi da solo, senza contraccolpi di rilievo, a somiglianza della “mano invisibile” di Smith e della “legge degli sbocchi” di Say), e dei socialisti utopisti o proudhoniani, i quali, secondo lui, si limitano a denunciare la miseria operaia, senza tuttavia proporre uno studio veramente scientifico dei processi economici in campo. Riassumendo, Marx muove dal modello ricardiano del valore del capitale e del principio di rarità, e spinge molto oltre l’analisi della dinamica del capitale stesso, considerando un mondo in cui il capitale è prima di tutto capitale industriale (macchine, attrezzature ecc.) e non terriero, e può dunque, in teoria, accumularsi illimitatamente. Di fatto la sua conclusione di fondo coincide con quello che possiamo chiamare “principio di accumulazione infinita”, vale a dire la tendenza inevitabile del capitale ad accumularsi e concentrarsi su scala illimitata, senza un termine naturale, da cui discende la soluzione apocalittica prevista da Marx: o si arriva a un calo tendenziale del tasso di profitto del capitale (il che manda in tilt il motore dell’accumulazione e può portare i capitalisti a sbranarsi a vicenda) o la quota di capitale del reddito nazionale si accresce indefinitamente (il che porterà i lavoratori, a più o meno breve scadenza, a unirsi e a ribellarsi).

In ogni caso, non è ipotizzabile alcuno stabile equilibrio socioeconomico o politico. Il fosco destino prefigurato da Marx non si è realizzato, così come non si sono realizzate le previsioni di Ricardo. A partire dall’ultimo terzo del XIX secolo, i salari fanno finalmente segnare un lieve progresso: il miglioramento del potere d’acquisto si generalizza, e il fenomeno cambia radicalmente la situazione, anche se le disuguaglianze restano estremamente forti e continuano per certi aspetti ad aggravarsi fino alla prima guerra mondiale. La Rivoluzione comunista ha sì avuto luogo, ma nel paese più arretrato d’Europa, quello in cui la Rivoluzione industriale era stata appena avviata (la Russia), mentre i paesi europei più avanzati hanno tentato altre vie, socialdemocratiche, a tutto beneficio dei loro popoli. Come gli autori a lui precedenti, Marx ha del tutto trascurato l’eventualità di un progresso tecnico durevole e di un costante aumento della produttività, fattore che, come vedremo, consente in una certa misura di equilibrare il processo di accumulazione e di concentrazione del capitale privato. Inoltre Marx, per perfezionare le sue previsioni, non disponeva di dati statistici adeguati. Sicuramente fu anche vittima del fatto di aver definito a priori le proprie conclusioni nel Manifesto del 1848, prima di intraprendere le ricerche in grado di poterle giustificare. Marx scriveva chiaramente in un clima di grande esaltazione politica, che comportava a volte valutazioni sommarie e frettolose, non consentendo di raccordare adeguatamente al discorso teorico fonti di carattere storico sufficientemente complete, attività a cui lui stesso non dedica l’attenzione che avrebbe potuto.

Inoltre non si è affatto posto il problema dell’organizzazione politica ed economica di una società in cui la proprietà privata del capitale sarebbe stata interamente abolita, problema quanto mai complesso come stanno a dimostrare le drammatiche improvvisazioni in chiave totalitaria dei regimi che vi hanno fatto ricorso. Vedremo in ogni caso che, malgrado tutti i limiti, l’analisi marxiana mantiene, su parecchi punti, una sua congruenza. In primo luogo, Marx parte da una visione reale (l’inverosimile concentrazione delle ricchezze verificatasi nel corso della Rivoluzione industriale) e tenta di rispondervi con i mezzi di cui dispone: ecco un approccio al quale gli economisti di oggi farebbero bene a ispirarsi. In secondo luogo, e in termini specifici, il principio di accumulazione infinita da cui Marx mette in guardia contiene un’intuizione fondamentale per l’analisi del XXI secolo come del XIX, un’intuizione ancor più inquietante, in qualche modo, del principio di rarità caro a Ricardo. Quando il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono per loro natura un valore considerevole, potenzialmente smisurato, e destabilizzante per le società interessate. In altri termini, una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione infinita: ne risulta uno squilibrio che, se non ha i connotati apocalittici sottolineati da Marx, ha comunque connotati assai inquietanti. L’accumulazione a un determinato punto si blocca, ma questo punto può essere estremamente elevato, e rivelarsi destabilizzante.

(T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, pagg. 21-23)

Sono necessarie due osservazioni qui. Prima di tutto, chi conosce la teoria contenuta nel Capitale di Marx sa che, contrariamente a quanto dice Piketty, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto indicata da Marx nasce proprio dalla tendenza osservata nel modo di produzione all’aumento capitalistico della composizione tecnica del capitale (mezzi di produzione / forza lavoro), quindi della produttività (nel senso di Marx) e la conversione di ciò in un aumento della composizione del valore (capitale costante / capitale variabile), ciò che Marx chiamerebbe aumento della composizione organica del capitale.

Tuttavia, gli aumenti di produttività non modificano il valore totale prodotto, ma riducono i valori unitari, poiché vengono prodotti più beni con lo stesso valore in termini di lavoro. Inoltre, Marx analizza anche le controtendenze a questa legge, cioè considera i fenomeni che danno origine alla “crescita sostenuta della produttività” descritta dall’economia borghese (aumento del plusvalore relativo, pressione sui salari al di sotto del valore del lavoro, diminuzione del valore dei mezzi di produzione, relativa sovrappopolazione…). Nel caso del plusvalore relativo, ad esempio, Marx rileva la possibilità che ciò possa derivare da progressi organizzativi e miglioramento nella divisione del lavoro. 

Questo tipo di aumento della produttività, tuttavia, appare molto di più nella fase manifatturiera, prima del periodo di predominio della grande industria, che caratterizza il capitalismo. Dopo l’emergere dell’industria, anche i possibili progressi organizzativi dipendono generalmente dal progresso tecnico, dall’incorporazione di nuove macchine nel processo di produzione che forniscono a questi cambiamenti una base materiale. Ciò che Piketty chiama “aumento della produttività del capitale”, sebbene sia una definizione oscura (chi ha la produttività è la forza lavoro, e non “il capitale in generale”), è completamente previsto nella teoria di Marx. In ogni caso, tutti questi fenomeni sono limitati, mentre l’aumento della composizione organica non ha limiti nel capitalismo, da qui il suo carattere di tendenza.

Ma il punto fondamentale qui è che la teoria del valore di Marx, differenziando chiaramente le parti di capitale che generano la sua valorizzazione (capitale variabile – porzione che mira ad acquisire l’uso della forza lavoro) e quelle che rimangono costanti, consente di comprendere l’origine dei processi di produzione del valore e le loro dinamiche. Per mantenere la sua logica crescente di appropriazione del plusvalore, il capitale deve aumentare la sua grandezza. Ad un dato tasso di plusvalore, una diminuzione relativa della quota di capitale che genera valore (capitale variabile, rappresentato dal valore della forza lavoro) e, quindi, del plusvalore, si tradurrà in una riduzione proporzionale della quantità di plusvalore prodotto in relazione al capitale totale anticipato.

La teoria costruita da Piketty gli rende impossibile capire tutto questo, in quanto parte da una nozione di capitale estremamente mistificante, a-storica, e non ha una teoria del valore (e nemmeno del capitale, della produzione capitalistica). Piketty è portato a ignorare completamente l’effetto della concentrazione della ricchezza sul processo produttivo considerando che, qualunque cosa avvenga dal punto di vista della distribuzione, il “tasso di rendimento” e la crescita non ne risentiranno sostanzialmente proprio perché non ha risorse nella sua teoria per “misurare” questa influenza. Di fronte a questa impossibilità, Piketty ricorre a ipotesi semplificatrici che fanno astrazione dal suo “modello” proprio degli aspetti fondamentali della realtà, cioè le influenze dei rapporti sociali di produzione nello sviluppo sociale. Il vero problema da analizzare, astratto per Piketty, è la causa della bassa crescita e delle crisi che, secondo lui, sarebbero all’origine dell’aumento della velocità di concentrazione. Queste cause non vengono mai discusse da Piketty.

Il fenomeno analizzato da Piketty, una tendenza ad aumentare la concentrazione di ricchezza derivante da una tendenza a ritirare risorse dal processo produttivo verso spese “patrimoniali” è reale e sembra acquisire sempre maggiore importanza. Gli economisti marxisti se ne occupano dagli anni ’70. Tuttavia, ciò che rimane poco sviluppato nella teoria di Piketty è, precisamente, la risposta alla domanda fondamentale di fondo: perché, con tutta la colossale ricchezza prodotta nel mondo capitalista, con l’enorme surplus estratto dal capitale e il consistente tasso di risparmio, non è possibile in questo momento, in aree come l’Europa Occidentale e gli USA, ottenere tassi di crescita che superano sostanzialmente l’1% in media previsto da Piketty, e perché una percentuale crescente di capitale viene ritirata dal processo produttivo verso la finanziarizzazione, processi di valorizzazione fittizi e spese “azionarie” improduttive? La risposta più probabile a questa domanda sembra venire proprio dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, come sottolineato da Marx. Il saggio di profitto del capitale, come osservato da Marx (relazione sociale di produzione con lo scopo di ottenere la valorizzazione), si riferisce specificamente alla ricchezza che partecipa al processo di produzione. Questo, a differenza del “tasso di rendimento” di Piketty, ha mostrato un’evoluzione che sembra confermare in larga misura le tendenze indicate da Marx.

Studi recenti basati sulla nozione marxista di capitale, nonostante importanti difficoltà e differenze, hanno dimostrato quanto segue sull’evoluzione dei tassi di profitto:

  1. caduta in generale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento;
  2. ricomposizione nei due dopoguerra fino alla metà degli anni ’60 (il picco varia tra il 1963-1970);
  3. caduta tra gli anni ’60 e la metà degli anni ’80;
  4. ricomposizione tra il 1990-1997, senza ripristinare i livelli del 1963;
  5. parte degli studi indica un calo dal 1997 ai giorni nostri.

La critica di Piketty alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto di Marx non proviene dai suoi dati, ma dalla sua oscura nozione di capitale. Utilizzando la teoria di Marx del modo di produzione capitalistico, possiamo vedere che le origini del processo analizzato da Piketty non sono i “capricci” del progresso tecnico o dell’evoluzione demografica che determinano i tassi di bassa crescita, né il fatto che si produca molta ricchezza in relazione alla soddisfazione dei bisogni sociali, ma che l’attuale livello di produzione diventa progressivamente incompatibile con una forma capitalista, cioè con l’appropriazione privata del surplus prodotto dal lavoro sociale.

È in questo senso che il concetto fluido di capitale di Piketty e il conseguente sviluppo teorico portano a una teoria che oscura le origini dei fenomeni che cerca di analizzare.

Il capitalismo di Piketty non ha classi sociali o contraddizioni insolubili. Poiché la concentrazione della ricchezza non è collegata alla crescita, le crisi (così come le guerre imperialiste) sono un fenomeno esterno alla loro natura, alle loro dinamiche fondamentali. Se con i suoi dati Piketty fa luce su un fenomeno importante, che esprime aspetti fondamentalmente contraddittori del modo di produzione capitalista, con la sua teoria Piketty non solo oscura le contraddizioni del capitale ma trova anche impossibile spiegare aspetti fondamentali del funzionamento del capitalismo, come il carattere ciclico delle sue crisi, il capitalismo appare come un sistema efficiente e stabile. Non è che non ci sia instabilità. Ma questa nasce solo dal sentimento di insoddisfazione dei poveri quando vedono impennarsi le fortune dei milionari, cioè la mancanza di una “meritocrazia” dal punto di vista della distribuzione. Le crisi, i licenziamenti, la disoccupazione, i tagli ai servizi sociali caratteristici dell’attuale “austerità”, per Piketty nulla di tutto questo è dovuto al processo di accumulazione capitalista e, quindi, deve avere origine da errori specifici, disadattamenti o questioni minori, come la deregolamentazione finanziaria.

 

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