-Bollettino Culturale, 16 ottobre 2022
Negri e Hardt hanno tradotto le nuove forme di produzione come una carne sociale viva, che attraverso i suoi formati mostruosi finisce per esprimere il creativo, aperto e molteplice, e tale dinamica può assumere alcune strutture che rappresentano la compattazione effettuata attraverso gli interventi del capitale. Su questa soglia, lo studio dell’ontologia presentato da Negri, l’analisi dell’essere in quanto essere sviluppata dall’autore, è anche rappresentativo dei sedimenti dell’organizzazione politica moltitudinaria che porta con sé la spinta al dualismo e all’antagonismo forgiati in relazioni irrisolvibili e, di conseguenza, finiscono per segnalare il movimento costitutivo che delimita i processi di sviluppo storico. In altre parole, le nuove caratteristiche del lavoro biopolitico finiscono per spingere la generazione dell’antagonismo, prima imprigionato nella fabbrica, nel campo della produzione di soggettività, poiché ora il capitale è costretto ad espropriare la vita in un senso che è generale, essendo, da questi presupposti, possibile visualizzare il seguente scenario descritto da Negri e Hardt:
“In realtà il potere capitalista controlla drasticamente le nuove figure del lavoro vivo, ma non può che controllarle dall’esterno, poiché non gli è consentito di pervaderle in maniera disciplinare. Con ciò la contraddizione dello sfruttamento è spostata su un livello altissimo dove il soggetto principalmente sfruttato (quello tecnico-scientifico, il cyborg, l’operaio sociale) è riconosciuto nella sua soggettività creativa, ma controllato nella gestione della potenza che esprime. E’ da questo punto altissimo di comando che la contraddizione ridonda su tutta la società. Ed è dunque rispetto a questo punto altissimo di comando che l’intero orizzonte sociale dello sfruttamento tendenzialmente si unifica, collocando dentro il rapporto antagonistico tutti gli elementi di autovalorizzazione, a qualsiasi livello essi insorgano.”1Il lavoro di Dioniso, pag.105
A questa soglia di shock, lo sviluppo capitalistico della finanziarizzazione comporterà un movimento di estrazione delle forme del Comune, siano esse aria, acqua, suolo, ma anche informazioni, affetti e codici e, in tal modo, ciò che viene designato come Comune non sempre risulterà evidente, poiché diventa soggetto a regimi di proprietà che si esprimono nelle pratiche di privatizzazione, oltre che di nazionalizzazione. Come sottolineano direttamente Hardt e Negri, le forme produttive comuni vengono cooptate da:
“regole e norme individualistiche e privatistiche inadatte a cogliere la nuova realtà produttiva e del tutto esterne alle nuovi fonti comuni di valore.”2Questo non è un Manifesto, pag.3
La descrizione di questa esternalità, ovviamente, non sarà interconnessa con l’evidenziazione di forze che non sono in relazione o reciprocamente integranti, ma con la traduzione di un processo di automazione produttiva in rapporto al capitale. Diventa sempre più nebulosa la precedente consolidata interdipendenza tra le forme di cooperazione e il capitale, in quanto si illumina una dipendenza esplicita: il capitale ha bisogno di un lavoro biopolitico per potersi sostenere, ma non è in grado di controllare il processo produttivo secondo le precedenti designazioni del regime fordista o moderno, cioè non interferisce direttamente nei suoi processi organizzativi. Questa trasfigurazione si riassume nello slogan maoista “l’uno si divide in due”, che viene tradotto da Negri e Hardt in questo modo:
“L’espressione «l’uno si divide in due» non significa la rinuncia del capitale, ma è indicativa della sua crescente incapacità di integrare la forza lavoro, e cioè della spaccatura del concetto di capitale in due soggettività antagonistiche.”3Comune. Oltre il privato e il pubblico, pag.294
È in questo sorvolo della produzione ontologica di soggettività contrapposte e, soprattutto, conflittuali, che è possibile indicare che non si tratta di una lotta casuale, ma di una battaglia che è condotta dall’instaurazione definitiva dell’autonomia della moltitudine rispetto al capitale, o, in altre parole, è un conflitto per la piena produzione di soggettività, che è possibile realizzarsi efficacemente solo se stimolato alle proprie condizioni, a modo suo, con i propri meccanismi di cooperazione e comunicazione, in un movimento che non è identitario, ma che esprime un divenire dei soggetti.
In questo scenario, l’indagine del potere della moltitudine e delle sue pratiche, porta alla concezione del “Principe” e del suo rispettivo “divenire Principe”, descritto da Negri e Hardt come “il processo attraverso cui la moltitudine apprende l’arte dell’autogoverno e crea forme durature di organizzazione sociale”, che possono essere concepite come realizzabili, proprio perché “tutti condividono e partecipano insieme al comune”4Ibid, pag.7. In questo senso è possibile esporre uno degli aspetti del progetto etico che caratterizza il divenire Principe: si tratta di un progetto “che si fonda interamente nell’immanenza dei processi decisionali che si svolgono all’interno della moltitudine”5Ibid, pag.12, cioè una concezione che decostruisce l’instaurarsi di identità come fissate attraverso l’illuminazione di un rapporto non contraddittorio tra molteplicità e singolarità, che nel loro incrocio presentano il divenire Principe come espressione di singolarità come multiple e relazionali.
Non c’è quindi solo un desiderio di sottrarsi alle grinfie del capitale a favore di una produzione più efficiente, ma piuttosto una tensione costante delle forme produttive affinché il divenire delle soggettività si trasformi fino all’apertura di possibilità di espansione dell’autonomia, uno scontro in cui la moltitudine se ne approfitta sempre: la sua esistenza per il capitale è una necessità, e le interferenze da esso poste in essere sono movimenti che danneggiano lo sviluppo di ciò che lo sostiene e, in tal modo, non osano affrontare direttamente ciò che viene dal basso.
Inoltre, le molteplici caratteristiche comportano l’impossibilità di indicare e valorizzare correttamente i processi produttivi, nonché i prodotti stessi e, in questo modo, si rivelano costantemente le eccedenze che non possono essere estratte dal capitale, finendo alla moltitudine e alla sua creatività perché accresciuta da flussi che sfuggono in relazione a insoliti tentativi di controllo. D’altra parte, il progetto etico descritto mostra delle specificità attraverso le quali è possibile visualizzare la costituzione del Principe, in quanto tale concetto è descritto in sintonia con la prospettiva della povertà, o più specificamente, la nozione di povero. Marx lo esprime affermando che: “Il concetto di lavoratore libero implica già che egli è povero: virtualmente povero. Per le sue condizioni economiche egli è una pura capacità lavorativa vivente, dunque provvisto anche di bisogni vitali. Indigenza in tutti i sensi, che non esiste oggettivamente come capacità lavorativa, si da realizzarsi come tale”6Grundrisse, pag.600.
In sintesi, Marx individua la capacità di lavoro vivo, inserita in un lavoratore che è libero, cioè povero, poiché non cambia la sua capacità lavorativa e, quindi, è considerato “virtualmente povero”.
Questa descrizione di un soggetto designato come una sorta di “povero in potenza” è sovvertita da Negri e Hardt nelle loro argomentazioni sulle nuove congiunture, cioè le nuove forme di produzione presuppongono un sviluppo che è illimitato, con i poveri pienamente inseriti nei circuiti produttivi, oltre che più distaccati dalla proprietà, argomento che porta all’inversione dell’enunciato di Marx attraverso la visualizzazione di una “potenza del povero”. L’analogia indicata si realizza a partire dall’analisi del pensiero di Hobbes proposta da Hardt e Negri. Hobbes sostiene che non è possibile dichiarare l’esistenza della moltitudine nella sfera politica, poiché non è stata ridotta a popolo, delle sue azioni e volontà unitarie. In questo senso, nell’affrontare le questioni relative agli individui e alle loro proprietà, la moderna teoria del soggetto, che si presenta insieme all’ideologia capitalista, è caratterizzata dalla propulsione dell’individualismo, con la proprietà come ambito nevralgico della sua fondazione e, quindi, è possibile visualizzare l’approssimazione operata da Negri e Hardt dalla costituzione del popolo, sempre più, alla nozione di proprietà. In definitiva, si osserva la descrizione di un popolo che è proprietario terriero e di una moltitudine che è povera, o, nelle parole degli autori, il popolo è “un’identità parziale, l’unità e omogeneità della quale è garantita dal monopolio della proprietà” mentre la moltitudine “è irriducibile a una componente specifica della società; essa è indicativa di una formazione aperta in cui sono inclusi tutti coloro che sono coinvolti nei meccanismi della produzione sociale a prescindere dall’appartenenza a un rango o dal possesso della proprietà, e in tutti gli aspetti della loro diversità, sono caratterizzati da una produzione aperta e plurale della soggettività.”7Comune. Oltre il privato e il pubblico, pag. 56
“Non è difficile rendersi conto delle ragioni per le quali queste moltitudini di poveri siano così pericolose per il capitale e per le strutture del potere globale. Se fossero semplicemente escluse dai circuiti della produzione globale, non rappresenterebbero una minaccia così grave. Se fossero solo vittime passive delle ingiustizie, dell’oppressione e dello sfruttamento, non risulterebbero così pericolose. La loro pericolosità consiste nel fatto che i lavoratori immateriali e gli operai dell’industria, assieme ai lavoratori delle campagne e persino ai poveri e ai migranti, sono globalmente inclusi come agenti attivi della produzione biopolitica. La loro mobilità e la loro comunanza costituiscono minacce permanenti di destabilizzazione delle gerarchie globali e delle divisioni dalle quali dipende il potere capitalistico globale. Essi scivolano attraverso le frontiere e scavano tunnel intercomunicanti che ne disgregano i muri. Inoltre, queste classi pericolose destabilizzano senza posa la costituzione ontologica dell’Impero: ogni volta che le linee della loro creatività e delle loro fughe si intersecano, le soggettività divengono sempre più ibride, meticce e capaci di evadere dai poteri fusionali di controllo.”8Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, pag.165
In considerazione di ciò, l’equivalenza con i poveri si realizza attraverso l’osservazione della congiuntura imperiale come prevalentemente compattata all’interno dello spettro proprietario, unitamente alla descrizione della moltitudine come non proprietà, caratterizzata cioè dall’essere fonte differenziale di ricchezza. Non si tratta solo della sua designazione come agente che segnala l’ampio spettro della produzione biopolitica, ma, soprattutto, di una caratterizzazione che è correlata alla potenza e all’abbondanza, poiché emerge come espressione dei mezzi cooperativi capaci di produrre il surplus comune su cui si sedimentano le rivolte. Per intendere in senso affermativo, dunque, l’enunciato “la deprivazione può generare rabbia, indignazione e antagonismo, la rivolta nasce solo dove c’è ricchezza, ossia un surplus di intelligenza, esperienza, sapere e desiderio”9Ibid, pag.247, bisogna comprendere la moltitudine dei poveri come una minaccia effettiva alla proprietà. Mentre la proprietà incoraggia l’esistenza di soggettività individuali e unificate come classe, riproducendo una formula di equilibrio tra individualismo e interessi imperiali, fino a sostenersi, la povertà moltitudinaria non è mai vista come miseria o mancanza, ma designa piuttosto la produzione di una soggettività alternativa, che si confronta con strutture sociali costituite attraverso caratteristiche fondamentalmente proprietarie.
“Per oltre un secolo il riformismo si è presentato come l’unica strada ragionevole ed efficace secondo il presunto realismo politico della sinistra ufficiale e socialista”10Assemblea, pag.322
ma Negri e Hardt criticano la possibilità di un compromesso con il capitalismo, pur essendo visto da alcuni settori della sinistra come un modo per creare migliori condizioni di lavoro, aumentare salari e benessere sociale, perché rappresenta una grande illusione.
Non si tratta di denunciare i tentativi di riforma progressista, ma di indicare che i cambiamenti che riguardano la produzione sociale finiscono per rendere il concetto impraticabile nella sua forma precedente: in primo luogo, con l’uso di alcune riforme cooptate all’interno del neoliberismo, movimento che finisce per essere l’espressione del trasferimento del dominio esercitato dagli Stati alle dimensioni del mercato.
L’altro motivo è che c’è un cambiamento, in relazione alla composizione della classe operaia industriale, una transizione che non sembra essere compresa dal riformismo di sinistra, finendo per riprodurre e rafforzare il capitalismo. In questo modo, ciò che emerge come proposta non è mai un ritorno alle vecchie prospettive riformiste intese come socialiste o progressiste, ma piuttosto un ripensamento delle basi su cui si può sostenere una riforma e, quindi, il concetto stesso di riforma finisce per esigere che ad essa vengano assegnati nuovi contorni, lavorando su tali prospettive senza un ritorno alla dicotomia prevalente tra riforma e rivoluzione. Questo significa spiegare la necessità di aggiornare entrambi i concetti, che saranno ricostruiti e intrecciati in diverse linee di azione. In questo senso, un nuovo approccio al concetto di riforma, sia in un contesto rivoluzionario che democratico, richiede la costituzione dei cosiddetti contropoteri.
Serve soprattutto a rafforzare alcune caratteristiche che costituiscono l’attuale paradigma imperiale, sia nell’ambito del dominio che in quello della resistenza. Non c’è un campo esterno che contempli i movimenti che cercano di frantumare le prospettive moderne in una direzione che parte dall’esterno per l’interno, ma piuttosto un riconoscimento che le differenze si intrecciano, così come si affrontano, all’interno della modernità: sono relazioni di potere, quindi, che finiscono per rivelare la resistenza al centro del dominio moderno.
Negri e Hardt nel libro “Comune” analizzano la storia dell’antimodernità principalmente attraverso tre aspetti: le resistenze non mirano a un ritorno al premoderno o a qualcosa di considerato non moderno, ma indicano piuttosto il terreno della resistenza e della libertà, che è la base dei moderni rapporti di potere. Tale caratterizzazione porta al punto successivo, ovvero l’antimodernità non è temporalmente esterna alla modernità, poiché non è una reazione. Al contrario, è la modernità che si struttura per contenere le alternative che emanano dalle forme di produzione. In questo senso, non è neppure possibile additare un’esternalità geografica dell’antimodernità rispetto alla modernità.
Se le parti del mondo considerate subordinate sono segnate dall’orizzonte moderno, allo stesso modo gli scenari intesi come dominanti sono incessantemente attraversati da ribellioni e movimenti di liberazione. Per fare un passo avanti, Negri e Hardt affermano che:
“L’altermodernità ha un rapporto trasversale con la modernità. Essa è in conflitto con la modernità come l’antimodernità, ma indirizza nettamente le forze verso una prospettiva di autonomia. Occorre subito osservare che il termine altermodemità può dare adito a incomprensioni. Per alcuni, questo termine è indicativo di un processo riformista volto ad adattare la modernità alla globalizzazione preservandone le caratteristiche distintive. Per altri, il termine suggerisce una modernità alternativa, o meglio, una serie di varianti culturali del tipo modernità cinese, modernità europea, modernità iraniana e così via. Con questa espressione, altermodernità, intendiamo una rottura completa con la modernità e con le sue relazioni di potere. L’altermodernità nasce nell’alveo dell’antimodernità da cui però si congeda per la ragione che essa lancia la resistenza e l’opposizione al di là dei limiti dell’antimodemità.”11Comune. Oltre il privato e il pubblico, pag.108-109
Su questa soglia, ciò che traspare mentre viene esposto è il superamento di una dualità tra modernità e antimodernità, un passaggio che non è più definito da contrapposizioni e diventa essenzialmente un percorso di rottura e di trasformazione. L’altermodernità emerge come costituzione di alternative, o meglio enfatizzazione, come costruzione di alternative che si fondano sul Comune. Emerge come questione culturale e di civiltà, ma è soprattutto una questione di produzione e, quindi, il concetto di moltitudine viene ricostruito trasversalmente: in un mondo di creazione, metamorfosi e mescolanza sociale, le specificità delle lotte non vengono diluite, ma riposizionate in uno scenario caratterizzato dalla molteplicità. I movimenti considerati, attraverso i loro aspetti di innovazione, come altermoderni sono caratterizzati da “una crescita della complessità del proletariato e di una nuova fisionomia delle lotte”12Ibid, pag.115.
In definitiva, compiendo un’apertura che va al di là della modernità e dell’antimodernità, è possibile superare le precedenti descrizioni di rivoluzione e di riforme, poiché i contropoteri, soprattutto, generano, creano e rivendicano in modo non sovrano rispetto al potere. In altre parole, il concetto di rivoluzione, che emerge come l’opposto dell’idea di riforma, viene visualizzato come vuoto, esprimendo nient’altro che un rapporto di sovranità contro sovranità. Negri e Hardt traducono questa prospettiva in questo modo:
“Dobbiamo costruire, al contrario, una rivoluzione non sovrana, che si sovrapponga all’azione riformista e con essa si mescoli – quando riforma significa istituire contropoteri.”13Assemblea, pag.329
È, quindi, si tratta di riforme che mirano a un’espressione rivoluzionaria, cioè un riformismo sovversivo, che contempla la molteplicità della vita e le sue trasformazioni, in quanto consente l’emergere di strategie legate alla valorizzazione produttiva in generale. La moltitudine consiste nella costituzione di contropoteri, nei modi di vita e istituzioni alternativi di fronte alla sovranità capitalista e, in questo movimento di costruzione, è possibile intravedere la sagoma del Principe, o, in altre parole, si apre la possibilità che la moltitudine agisca come un nuovo Principe, in quanto “produttori e riproduttori (che alla fine agiscono come un nuovo Principe) sviluppano progetti ed esprimono la loro forza dentro e contro i luoghi di dominio, che si estendono orizzontalmente lungo la società e si ergono verticalmente come forme di comando.”14Ibid, pag.330
Per Negri e Hardt, le descrizioni fatte sulle nuove forme di cooperazione che caratterizzano la contemporaneità e, di conseguenza, la postulazione di un Principe che emana dal presente produttivo e riproduttivo, riescono a delineare i contorni dei poteri che caratterizzano e derivano dalla moltitudine, e, da queste indicazioni, è possibile pensare alle strategie. Non si tratta di dire che il Principe rappresenta la moltitudine, ma che la moltitudine inizia ad agire allo stesso modo del Principe, dimostrando la sua capacità di agire politicamente e, alla fine, la sua capacità di creare un progetto democratico. Pensare al Principe, quindi, presuppone “costruire contropoteri capaci di combattere le forme di governo esistenti, di impiegare le forze sociali in istituzioni durature, di creare nuove forme di vita.”15Ibid, pag.343
Per Hardt e Negri tali traguardi possono essere raggiunti, oltre che garantiti nel tempo, solo attraverso la “costruzione delle capacità strategiche della moltitudine”, che vengono descritte attraverso tre analogie con la mitologia greca: in primo luogo abbiamo Efesto, colui che potrà armare la moltitudine, un Dioniso, a tre volti, che ha la capacità di governare il Comune, e un Ermete, che conia la moneta del Comune. Bisogna riconoscere la potenziale complementarietà di queste strategie, insufficienti se viste singolarmente, che ci consente di intravedere gli schizzi che possono portare alla cosiddetta democrazia moltitudinaria del Comune, poiché il rafforzamento di tali capacità è in grado di sostenere la prospettiva di leadership tattiche e movimenti considerati strategici.
Osservando la postulazione di Efesto, colui che arma la moltitudine, è necessario sottolineare una questione fondamentale posta dagli autori: “di quali armi ha bisogno la moltitudine?” poiché “oggi è chiaro a quasi tutti che proiettili e bombe, nella maggior parte delle situazioni ma soprattutto nei paesi occidentali, non servono a proteggere.”16Ibid, pag.344 In questo senso, ciò che si presuppone è un ampliamento del concetto di arma, nonché uno spostamento della domanda: non si tratta solo di interrogarsi su quali altri tipi di armi possono essere usate dalla moltitudine, ma di mettere in discussione lo stessa scopo di questo armamento, poiché insistere sull’uso delle armi per la difesa degli individui è la dichiarazione di una non osservanza, in modo integrale, circa le potenzialità che una nuova concezione di arma potrà contemplare. Per Negri e Hardt la funzionalità di un’arma può essere presentata dall’indicazione di due direzioni: una che è esterna, verso il nemico, ma c’è anche una sfaccettatura che è interiore, quella che cerca una trasformazione dei soggetti. Nel quadro illustrato, è chiaro che la prima direzione, essendo indicativa di uno scenario esterno, può trovare concretezza in un processo di trasformazione solo se attuata attraverso la seconda funzionalità. In altre parole, attaccare un nemico è, soprattutto, un’attività che può essere efficace solo se è svolta attraverso il dispiegarsi dello scopo che è interno, in un movimento di sviluppo dell’autonomia e, di conseguenza, di intensificazione della possibilità di estrapolazione di nuove forme di vita che sovvertono i comandi dell’Impero. “Le vere armi nascono dal potere politico e sociale, dalla potenza della nostra soggettività collettiva”17Ibid, pag.345.
Pensare all’uso delle armi esclusivamente per la difesa non troverà concretezza nella filosofia di Hardt e Negri, cioè le armi postulate dagli autori non saranno mai viste, in maniera primordiale, come difensive, ma è soprattutto l’espressione di un’offensiva, con le strutture capitalistiche che si consolidano nella contemporaneità, sottolineando un tentativo di difesa che mira ancora, anche con risorse sempre più limitate, a contenere i nuovi postulati produttivi ed estrarre quanto necessario per mantenere la loro sedimentazione. Tuttavia, il Comune viene sempre prima, essendo precedente a qualsiasi altra configurazione sociale.
Questo non significa, ovviamente, che l’uso delle armi tradizionali non sia visto come necessario in alcune situazioni, esigenza che viene compresa da Negri e Hardt attraverso l’analisi di alcune congiunture specifiche, come la difesa curda della città di Kobanî, nel Rojava, che era sotto attacco da parte dello Stato islamico. Nonostante ciò, l’esempio curdo è considerato un caso di vittoria, non per le armi tradizionali utilizzate, e nemmeno per l’incredibile abilità con cui i combattenti brandivano queste armi, ma, prima di tutto, per il sovvertimento delle vecchie forme sociali, rivelata attraverso la scomposizione delle consuete tattiche organizzative attuate nei campi in cui si è perpetuato il conflitto diretto, essendo questa una trasfigurazione in grado di segnalare gli sviluppi che sono biopolitici.
La moltitudine si caratterizza come un fuggitivo, ma non è una pretesa di spostamento verso altri luoghi, ma la visualizzazione della possibilità di trasformare le relazioni e i sistemi in cui si vive, che è indicativa, in ultima istanza, di un processo inventivo che ha la capacità di traboccare il comando capitalista.
Si tratta di evidenziare anche procedure rivelate come componenti di un processo continuo che trasfigura gli individui e, di conseguenza, la storia, attraverso un’abbondanza ontologica, poiché la produzione di soggettività non dipende solo da elementi di presa di coscienza, ma anche da una specie di deposito ontologico, che accumula l’essere sociale geologicamente, in modo sedimentario, strato su strato, essendo un tale processo rappresentativo delle caratteristiche della fuga creativa descritta da Deleuze. Il primo livello ontologico, dell’immaginazione, delle passioni, dell’intelligenza, che si iscrive nell’attraversamento dei corpi e segni di un accumulo compiuto nell’essere, quando spostato e osservato sul piano sociale, finiscono per sottolineare l’esistenza di protesi creative, che sovradeterminano in maniera creativamente relazionale il tessuto ontologico di prima istanza. Finisce per spiegare la produttività comune, il suo sviluppo, i presupposti ei prodotti.
Avvicinandosi a Dioniso viene designato un compito di governo che appare sulla scena come primordiale nella moltitudine che si comporta come un Principe, cioè il suo impegno attuale consiste nel prendere decisioni che riguardano l’organizzazione della società. Per Negri e Hardt, così come l’Impero mantiene la sua gestione attraverso una costituzione mista e il suo triplice imperativo, anche la moltitudine deve sostenersi attraverso tre percorsi che si intersecano, cioè da tre strategie che si intrecciano, fino a che è possibile stabilire un principio di democrazia assoluta, ovvero: l’esodo, il riformismo antagonista e la cosiddetta strategia egemonica. In primo luogo, l’esodo è la descrizione di un processo in cui le istituzioni dominanti vengono negate e, in misura ridotta, si creano nuove relazioni sociali, essendo un movimento così efficace per la creazione di forme di vita, poiché le istituzioni regnanti hanno come parte delle loro azioni la riproduzione di determinate relazioni sociali.
Nonostante ciò, ci sono dei limiti espressi in questo approccio strategico, ad esempio la difficoltà di creare relazioni alternative quando si è circondati da riproduzioni dominanti, finendo spesso per riprodurre moralismo e polizia interna, oltre ad esprimere un’inefficacia nell’incidere su una congiuntura considerata esterna, essendo esperienze impegnate in modo limitato senza poter affrontare l’ordine imperiale e costituire alternative sociali in modo ampio. Dall’altro lato, c’è il cosiddetto riformismo antagonista, descritto rispetto al riformismo socialdemocratico in questo modo: “In contrasto con quello che potremmo chiamare riformismo collaborativo, che serve soltanto a compensare i mali del sistema attuale con un miglioramento dei suoi aspetti negativi, il riformismo antagonistico punta a un cambiamento sociale fondamentale”18Ibid, pag.351, le sue caratteristiche sono sottolineate attraverso la designazione di un ampio campo di azione, indicato, ad esempio, attraverso processi elettorali e progetti giuridici e istituzionali che mirano a far fronte alle gerarchie stabilite e ristabilite dal capitale. Tali agencement possono essere visti nei tentativi di migliorare la qualità della vita delle persone attraverso progetti abitativi, protezione dalla violenza sessuale, consolidamento dei diritti del lavoro e programmi che cercano di fornire sicurezza ai migranti. Tuttavia, come la strategia dell’esodo, i suoi limiti sono palesi, con le istituzioni dominanti non suscettibili di ampi mutamenti, sia per il loro stesso modo di strutturarsi, cioè per le loro finalità sedimentarie, ma anche per la debolezza dei soggetti che, attraverso un percorso interno, mirano a trasformare le strutture del potere, allineandosi infine al sistema imperiale prevalente.
Nel senso della strategia egemonica, quella che mira a prendere il potere e creare istituzioni per una nuova società, l’intenzione è quella di trasformare la società nel suo insieme, non interconnettendosi con la prima disposizione descritta, in quanto non divide l’esterno e l’interno, in quanto non mira ad alcun tipo di riforma delle istituzioni, ma alla loro completa destituzione. In altre parole, la presa del potere richiede la trasformazione del potere e, in questo modo, il potere della moltitudine o la democrazia assoluta sono designazioni che non possono mai essere collegate allo Stato. Nonostante ciò, viene visualizzata anche la fragilità di questa concezione, e il movimento che prende il sopravvento, anche se su scala nazionale, significa una risposta diretta alla strutturazione del governo capitalista: la riduzione degli stati dominanti e delle forze non statali che compongono la congettura imperiale mina prontamente le forze dei poteri alternativi, il probabile risultato di tale impresa è riassunto nell’indicazione: “Anche quelli che sono riusciti a prendere il potere, insomma, hanno finito per non averne poi molto.”19Ibid, pag.354
Infine, affinché l’emergere di un Hermes, colui che sviluppa la moneta del Comune, sia possibile, è necessario prendere il Comune come fondamento di un’organizzazione sociale che può essere vista come alternativa al capitale e, quindi, la questione dello statuto e del modo di regolare il denaro diventa inevitabile. Negri e Hardt avanzano su questa strada, sostenendo che, pur essendo chiara, all’interno delle società contemporanee controllate dalla finanza, la violenza che si esercita attraverso il denaro, non è il problema in sé: si stabiliscono determinate tendenze relazionali, di cui gli sviluppi monetari sono solo i sintomi. In altre parole, nella congiuntura attuale, il denaro è concepito e sostenuto attraverso i rapporti di proprietà e, in questo senso, è necessario smantellare la proprietà e sviluppare il Comune affinché sia possibile effettuare una nuova caratterizzazione del denaro, cioè in modo che possa essere utilizzato con diverse modalità e nuovi scopi.
Una delle proposte capace di avvicinare i soggetti alla moneta Comune, è l’esigenza di un reddito di base universale, ovvero, la creazione di una moneta Comune. Insomma, la costituzione di un reddito di base è in grado di realizzare un movimento di separazione tra reddito e lavoro salariato e, in tal modo, ciò che finisce per essere indirettamente riconosciuto, oltre che remunerato, è la produzione che si realizza nell’ampiezza dei circuiti sociali, indebolendo così l’alleanza tra produzione di ricchezza e perpetuazione della proprietà. Questa almeno è la tesi di autori come Carlo Vercellone.
Negri e Hardt sostengono che: “una moneta della cooperazione va oltre il reddito di cittadinanza garantito”20Ibid, pag.359.
Se il reddito di base si rapporta in una prospettiva, in larga misura, di affermazione dell’eguaglianza, una produzione comune è espressione di singolarità che si relazionano, non potendo essere contemplate da una massificazione dei bisogni. Una moneta della cooperazione è un’indicazione della necessità di flussi monetari che siano in grado di racchiudere le molteplici espressioni che emergono attraverso una costituzione moltitudinaria. Nelle parole degli autori, “la questione qui non è il reddito, ma l’impiego delle risorse sociali per una pianificazione democratica per il futuro”, pianificazione che presuppone la disponibilità di denaro per sostenere l’istruzione, i trasporti, la comunicazione, nonché per la conservazione della Terra in senso generale, cioè un investimento che sia sociale e planetario e, in questo senso la proposta può essere intesa come troppo utopica e slegata dalle sfere di possibilità di azione. Oltre alla designazione delle altre linee strategiche proposte per il confronto con il capitale, è un esercizio che punta anche a una realtà sociale e politica che diventa latente, oltre a indicare possibili modalità di riordino dei flussi produttivi. “In definitiva, una moneta del comune sarà all’ordine del giorno quando le relazioni sociali del comune, che essa può servire a istituzionalizzare, saranno state pienamente articolate nella pratica.”21Ibid, pag.361