-Bollettino Culturale, 11 aprile 2022
Introduzione
Jason W. Moore legge il capitalismo come una successione di specifici regimi ecologici, in cui l’accumulazione del capitale da un lato e la “produzione della natura” dall’altro sono processi concepiti come dialetticamente intrecciati. Moore propone di rompere con la concezione del capitalismo come formazione economico-sociale che, quando si dispiega, agisce semplicemente sulla natura. Questa concezione è da lui definita “cartesiana”, cioè che separa Natura e Società. Moore sostiene la necessità di concepire il capitalismo come una formazione storico-sociale che si è sviluppata attraverso le relazioni tra le società e la natura in quanto il capitalismo non ha un regime ecologico specifico, il capitalismo è un regime ecologico. Nel corso della sua elaborazione teorica rielaborerà la concezione marxista della storia, impegnato a incorporarvi la dimensione ecologica. Traendo ispirazione dalla prospettiva ereditata dall’École des Annales francese, in particolare da Fernand Braudel e dal suo concetto di Longue Durée, e dal lavoro dei teorici del Sistema-Mondo come Giovanni Arrighi, Moore costruisce una teoria del capitalismo come Ecologia-Mondo.
Moore pone con questo concetto di Ecologia-Mondo le basi di una sorta di “materialismo storico-ecologico” in cui la storia del capitalismo e dei modi di produzione precedenti è intesa come un susseguirsi di regimi ecologici che strutturano i processi di accumulazione e “produzione della natura”. Con questa proposta, Moore sostiene che invece di scrivere la storia dell’impatto del capitalismo sulla natura, è possibile indagare la relazione generativa tra “l’accumulazione infinita” e la “produzione infinita della natura”. La storia di questo rapporto è caratterizzata da crisi ambientali cicliche, inseparabili dalle crisi di accumulazione, e attraverso le quali è necessario studiare la storia del capitalismo. È nella caratterizzazione di queste crisi ambientali che Moore trova rilevante e utilizza il concetto di “frattura metabolica” di Foster. In effetti, queste “crisi ambientali” si scatenano proprio nell’ambito delle disgregazioni metaboliche, dialetticamente intrecciate con le crisi di accumulazione. Secondo Moore, l’errore di Foster e dei suoi seguaci è però quello di mantenere una “separazione cartesiana” tra crisi ecologica e crisi di accumulazione. Per Moore, le trasformazioni ecologiche e le trasformazioni economiche guidate dal processo di accumulazione devono essere pensate insieme e non, come fanno questi autori, in due “scatole” indipendenti e distinte. In questo senso afferma che la teoria della frattura metabolica può essere sviluppata in tutta la sua potenzialità solamente se iniziamo a guardare al capitalismo come Ecologia-Mondo.
La teoria del Capitalocene
Da quando la proposta teorica dell’Antropocene è emersa nel 2000 come designatore di una nuova epoca geologica è iniziato un acceso e importante dibattito sul suo significato, innescando numerose revisioni e adattamenti nelle letture sul passato e sul futuro del mondo. Alcuni cercano di difendere la neutralità scientifica delle scoperte sulle grandi trasformazioni e minacce per il pianeta e per la nostra specie, causate da essa stessa, come la scarsità e l’inquinamento dell’acqua. Le letture più critiche del concetto, come quella di Jason W. Moore, mettono in evidenza l’approccio materialista del Capitalocene, per il quale l’attuale crisi sociale ed ecologica planetaria è da attribuire al capitalismo e non all’umanità o ai “limiti della Natura”. La lunga esistenza del modo di produzione capitalista non sarebbe il risultato di una scelta/investimento collettivo e naturale dell’umanità ma un progetto di dominio culturale, economico, politico ed ecologico globale, costruito sullo sfruttamento ininterrotto, ineguale e catastrofico della Natura. In questo progetto, le ingiustizie, la violenza e le disuguaglianze sono inerenti al processo di appropriazione e capitalizzazione esclusivistica della Natura e alla socializzazione dei costi attraverso l’abbattimento culturale (imperialismo, razzismo e sessismo) ed economico della vita. Moore cerca nei suoi lavori di dimostrare come il modo di produzione capitalista sia largamente responsabile della crisi ecologica globale, delle disuguaglianze e della violenza che lo hanno contraddistinto e costituito sin dal XVI secolo. Pertanto, la disuguaglianza può assumere una condizione di categoria chiave, sia per attribuire responsabilità per la distruzione planetaria, sia per distinguere i modelli dominanti di relazioni tra Società e Natura inerenti alle dinamiche capitaliste. Il concetto di Capitalocene, secondo Moore, espone l’estroversione storica del capitalismo, che, per sopravvivere, ha delimitato incessantemente il pianeta sia come fonte di Cheap Nature (natura a buon mercato) che come deposito di spazzatura planetaria. Le organizzazioni pubbliche e private sono state attivamente coinvolte nel processo di riduzione di porzioni crescenti della natura e del lavoro umano a merce.
Nel primo articolo del 2013 in cui espone la sua lettura del Capitalocene, Moore rienumera sistematicamente le critiche all’Antropocene, affermando:
The Anthropocene makes for an easy story. Easy, because it does not challenge the naturalized inequalities, alienation, and violence inscribed in modernity’s strategic relations of power and production. It is an easy story to tell because it does not ask us to think about these relations at all. The mosaic of human activity in the web of life is reduced to an abstract humanity as homogenous acting unit
1
Moore afferma che ci sono due decisioni metodologiche dietro questo approccio. La prima ha a che fare con una concezione meramente quantitativa, Moore usa il termine “scatola nera”, degli agenti astratti: industrializzazione, urbanizzazione, popolazione. La seconda si riferisce alla concezione dell’umanità come attore “collettivo” in cui “the historical-geographical patterns of differentiation and coherence are erased in the interests of narrative simplicity.”2
Laddove la critica di Moore all’Antropocene acquisisce particolari specificità è nell’affermazione che le diverse concezioni di “natura” sono infatti l’espressione di relazioni sociali mediate dal capitale, idealizzate come “ontologicamente indipendenti” dai conflitti che le attraversano. Questa separazione tra uomo e natura, che per i difensori dell’Antropocene appare evidente, deriva, secondo Moore, dal concetto filosofico di “dualismo cartesiano”:
In its simplest form, this philosophy locates human activity in one box, the rest of nature, in another. To be sure, these two acting units interact and influence each other. But the differences between and within each acting unit are not mutually constitutive, such that changes in one imply changes in the other – although such dialectical relations are empirically acknowledged from time to time.
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L’argomentazione prosegue affermando che “Human activity not only produces biospheric change, but relations between humans are themselves produced by nature. This nature is not nature-as-resource but rather nature-as matrix: a nature that operates not only outside and inside our bodies (from global climate to the micro-biome) but also through our bodies, including our embodied minds”.4
Il ritorno a Cartesio di una particolare formulazione soggettiva che struttura il pensiero occidentale moderno e la sua concezione del soggetto e del suo posto nel mondo è motivo ricorrente in molteplici correnti della filosofia continentale, da Martin Heidegger e Giorgy Lukács a Michel Foucault, ma Moore sembra distogliere l’attenzione dalle aporie della metafisica e della soggettività per concentrarsi sulle conseguenze di questa cesura nella costituzione di un’economia politica che è di fatto un’ecologia. Moore rivisita i concetti base della critica marxiana, la separazione tra valore d’uso e valore di scambio, lavoro sociale astratto, accumulazione primitiva, reinterpretandoli alla luce della linea di frattura del “dualismo cartesiano”, dei dati e dei processi rivelati dalla ricerca scientifica da cui nasce l’argomentazione dell’ipotesi dell’Antropocene. In questo senso, è l’emergere di qualcosa come il capitalismo che spiega e racchiude certe urgenze e impasse storici. Contrariamente ad autori come Bonneuil e Fressoz, per Moore il capitalismo è un evento storico suscettibile di analisi metodologica che va oltre la sua percezione comune, la stessa che scartano come ipotesi. Laddove i primi cercano di discriminare processi settoriali, momenti particolari e periodizzazioni specifiche dei fenomeni ambientali appiattiti nell’Antropocene, Moore si concentra sulle ipotesi strutturali e materiali che consentono una comprensione globale di questi fenomeni.
La storia del capitalismo non è quindi una dicotomia tra natura e società, ma un insieme di trasformazioni “co-produced by human and extra-human natures”.
Diverse ipotesi di periodizzazione geologica cercano di individuare l’inizio del modo di produzione capitalista. Marx contesta l’accumulazione primitiva come formulata da Adam Smith, come il peccato originale dell’economia politica in cui la propensione al lavoro di alcuni, e all’indigenza di altri, avrebbe abbozzato le distinzioni originarie tra accumulatori e lavoratori. Al contrario, l’appropriazione di beni naturali e umani dal mondo extraeuropeo fornirebbe un accumulo di valore, tanto da poterne investire una parte successivamente. In Europa, con la fine del feudalesimo, l’idea di produttività si trasferisce dalla terra al lavoro, e linearmente da un plusvalore relativo, in cui la capitalizzazione è funzione della dimensione delle risorse, a un plusvalore assoluto, dove si verifica l’intensificazione dei livelli di sfruttamento. Ponendo il lavoro come fonte primaria di valorizzazione, il capitale crea la sua forma astratta, cattura dell’attività umana e delle sue dimensioni sociali, in una forma mercificata con uno specifico valore di mercato.
Il capitale è quindi l’accumulazione di lavoro sociale astratto, ma non solo. Moore afferma che il paradigma centrale di questa accumulazione primitiva è proprio “a far-flung repertoire of imperialist enclosure and appropriation of nature’s “free gifts” in service to commodity production.”5
Il capitalismo ha le sue origini nella cattura e nello sfruttamento del lavoro non pagato, sotto forma di sfruttamento o sotto forma di appropriazione di beni naturali. “These conditions depend on massive contributions of unpaid work, outside the commodity system but necessary to its generalization. Sometimes this is called the domain of social reproduction.”6
È qui che la distinzione tra natura e società diventa controversa: la riproduzione della specie, la socializzazione e l’educazione dei giovani sono processi naturali o culturali? Questa indistinzione non è esclusivamente umana ma, secondo Moore, si estende a qualsiasi dominio “extraumano” che fornisce “natura a buon mercato” al capitale. Moore distingue quindi tra sfruttamento e appropriazione: “Appropriation, in what follows, names those extraeconomic processes to identify, secure, and channel unpaid work outside the commodity system into the circuit of capital. Scientific, cartographic, and botanical revolutions, broadly conceived, are good examples, and themes to which we will return later in this essay. Movements of appropriation, in this sense, are distinct from movements of the exploitation of wage-labor, whose tendential generalization is premised on the generalization of appropriative practices.”7
L’appropriazione sorge come un a priori storico che inquadra e organizza i divenire biologici e geologici della natura. È nel territorio schematizzato, mappato e disposto per l’appropriazione che avverrà lo sfruttamento e la valorizzazione del lavoro, qui inteso come uno degli elementi delle “nature a buon mercato” catturate, equivalenti ad altri “prodotti” naturali: cibo, energia e materie prime.
Questo processo di appropriazione, di accumulazione “primitiva” e di cattura di una natura che esclude certi processi di remunerazione, includendoli nella riproduzione del capitale, non è però un “picco d’oro” storico ma un espediente che, nel corso della storia del capitale, trova nuove forme. David Harvey, cercando di spiegare la crisi finanziaria del 2008, sottolinea l’imperativo della mobilità dei capitali e del reinvestimento, ovvero il modo in cui il capitale inattivo è capitale morto. L’imperativo della mobilità del capitale si associa poi alla scoperta, o creazione, di nuove frontiere di valorizzazione basate su questa distinzione tra lavoro e natura, tra remunerazione e riproduzione. L’accumulazione “primitiva” non è, quindi, la classificazione di elementi la cui disposizione ontologica è anteriore alla loro descrizione, ma la creazione continua di confini, identità e paradigmi di azione e riproduzione che obbediscono alla separazione che ne è il cuore . Ora, la riflessività ecologica e ambientale degli ultimi decenni, e la consapevolezza dei limiti della riproduzione naturale e dello sfruttamento delle risorse, implicano una riconfigurazione dei paradigmi riproduttivi del capitalismo, un’opera di cui l’Antropocene come grande narrazione si occupa, tuttavia gran parte dei suoi sostenitori lo considerano un trionfo della specie.
Per Moore, questa proposta secondo cui, parallelamente a un “lavoro sociale astratto”, esisterebbe una “natura sociale astratta”, un concetto su cui torneremo, interroga la narrazione dell’Antropocene in due modi: “First, is Industrialization the Big Bang of modernity, or is it instead a cyclical phenomena of capitalism from the long sixteenth century? Second, is Industrialization the most useful concept for explaining large-scale and long-run patterns of wealth, power, and nature in historical capitalism?”8
Esplicita è la messa in discussione della periodizzazione dell’Antropocene, che cerca nella rivoluzione industriale il momento iniziale della nuova era geologica. L’industrializzazione non sarebbe quindi un plateau nell’evoluzione tecnica dell’umanità, ma una delle espressioni cicliche dei processi di riproduzione del capitalismo, che hanno la loro origine alcuni secoli prima. Moore inverte il paradigma dell’Antropocene: “Whereas the Anthropocene argument begins with biospheric consequences and moves towards social history, an unconventional ordering of crises would begin with the dialectic between (and amongst) humans and the rest of nature, and thence move towards geological and biophysical change. These consequences, in turn, constitute new conditions for successive eras of capitalist restructuring across the longue durée. Relations of power and production, themselves co-produced within nature, enfold and unfold consequences. The modern world-system becomes, in this approach, a capitalist world-ecology: a civilization that joins the accumulation of capital, the pursuit of power, and the production of nature as an organic whole (…). This means that capital and power – and countless other strategic relations – do not act upon nature, but develop through the web of life. Crises are turning points of world-historical processes – accumulation, imperialism, industrialization, and so forth – that are neither social nor environmental in the usual sense, but rather bundles of human and extra-human natures, materially practiced and symbolically enabled. In world-ecological perspective, nature stands as the relation of the whole. Humans live as one specifically-endowed (but not special) environment-making species within the web of life.”9
L’argomento più interessante di Moore sembra essere questa denaturazione dell’ecologia: non esiste “l’ecologia”, un sistema chiuso suscettibile di equilibri e squilibri, ma diverse ecologie, diversi modi di organizzare e di essere organizzati dalla “natura”. La situazione si presta a diverse rivisitazioni: si tratterà allora di fare una critica all’ecologia politica e di suggerire che non c’è natura naturale. L’ecologia non sorge all’incontro tra una specificità umana e una specificità naturale, che cerca e organizza punti di equilibrio tra le dinamiche essenziali di ciascuno; ma, al contrario, è una struttura che produce, modella e dirige le concezioni e le relazioni particolari degli elementi in essa coinvolti. Queste concezioni sono storiche, politiche e dialettiche. Questa interrogazione sul “dualismo cartesiano” lascia una domanda aperta: che nome dobbiamo dare all’insieme tra uomo e natura che, nel suo rapporto, fa crollare anche la distinzione tra soggetto e oggetto, mezzo e fine? Se non c’è né determinismo umano nella storia naturale né determinismo naturale nella storia umana, come fare riferimento alle dimensioni politiche, soggettive e storiche che si presentano come uno stato di cose? Moore suggerisce il concetto di oikeos, una concezione ontologica che riunisce Società e Natura nello stesso ambito.
L’ipotesi che il capitale sia allora l’elemento che diventa forza tellurica propone una propria periodizzazione, contraria a quanto disegnato da Crutzen e Steffen. Moore riprende la storiografia della Longue Durée di Braudel, Wallerstein e Arrighi per affermare che: “the rise of capitalism after 1450 marked a turning point in the history of humanity’s relation with the rest of nature, greater than any watershed since the rise of agriculture and the first cities – and in relational terms, greater than the rise of the steam engine.”10
Moore fornisce un ampio catalogo dei cambiamenti ambientali avvenuti tra il 1450 e l’inizio della rivoluzione industriale, concentrandosi sui cambiamenti strutturati intorno allo scambio e alla cattura di merci, inclusa la rivoluzione agricola nei Paesi Bassi; la rivoluzione mineraria e metallurgica dell’Europa centrale; i primi segni di un nesso tra schiavi e zucchero nell’isola di Madeira e São Tomé, dove appariranno le prime grandi piantagioni che deforesteranno un terzo dell’isola; la successione del Brasile a São Tomé, dal 1570, al centro della tratta degli schiavi e l’esaurimento delle miniere d’argento in Sassonia e Boemia, a causa della deforestazione, tra le tante. Il susseguirsi degli eventi, il sorgere delle nuove tecnologie e lo spostamento dei confini commerciali e lo sfruttamento delle risorse, segue un percorso causale dai momenti qui presentati fino alla “rivoluzione della produzione inglese del carbone”, dal 1530 in poi, e agli “scambi colombiani” di fauna, flora e malattie tra vecchio e nuovo mondo. In questo senso, l’“industrializzazione”, che inaugurerebbe l’Antropocene “ufficiale”, sarebbe solo il prolungamento, la “meccanizzazione”, di una “standardization and rationalization, prefiguring, in embryonic form, the assembly line and Taylorism of the twentieth century”11, cioè la logica di disposizione e sfruttamento che presiederebbe all’elaborazione delle tecnologie industriali sarebbe già in atto molto prima della rivoluzione industriale. Moore riassume la questione alla fine della prima parte dell’articolo: “In sum, because early capitalism’s technics – its crystallization of tools and power, knowledge and production – were specifically organized to treat the appropriation of global space as the basis for the accumulation of wealth in its specifically modern form: capital, the substance of which is abstract social labor.”12
Affermando che la forma-valore è l’essenza del capitale in un contesto che problematizza anche la natura, Moore avanza una proposta che affronterà nella seconda parte della sua argomentazione sul concetto Capitalocene. Esisterebbe “a new law of value in formation in these centuries, expressed by two epoch-making movements. One was the proliferation of knowledges and symbolic regimes that constructed nature as external, space as flat and geometrical, and time as linear (the field of abstract social nature). The other was a new configuration of exploitation (within commodification) and appropriation (outside commodification but in servitude to it).”13
Nello stesso momento in cui il valore di scambio crea il lavoro sociale astratto, crea anche una “natura sociale astratta”: “The law of value – understood as a gravitational field exerting durable influence over the long-run and large-scale patterns of the capitalist world-ecology – is not an economic phenomenon alone, but a systemic process with a pivotal and decisive economic moment (abstract social labor). Second, the moment of value accumulation (as abstract labor) is historically materialized through the development of scientific and symbolic regimes necessary to identify, quantify, survey, and otherwise enable not only the advance of commodity production but also the ever-more expansive appropriation of cheap natures.”14
La seconda parte dell’articolo di Jason Moore interroga specificamente questa “natura sociale astratta”. La questione della frontiera implicita nelle appropriazioni multiple del capitalismo appare qui come centrale: se il valore si fonda su una divisione tra lavoro astratto retribuito e lavoro non retribuito che viene comunque reso redditizio, allora la riproduzione dei rapporti di valore avviene attraverso la ricerca, e creazione di confini tra l’uno e l’altro. “these frontiers are not “just there” but are actively constituted through symbolic praxis and material transformation, at once unifying and alienating “mental” and “manual” work (base/superstructure).”15
La quantificazione del tempo e la quantificazione dello spazio sono, quindi, misure derivate da una quantificazione del valore. Cioè, di una quantificazione del lavoro e, come tale, di una quantificazione ontologica e astratta che afferma l’esperienza fondamentale dell’umano come “lavoro”, e che è, quindi, discriminabile, ordinabile e immagazzinabile. Questa premessa corrisponde alla delineazione di un paradigma interessante, dove il confine tra natura e non natura non è più tra umano e non umano e diventa tra produttivo e non produttivo. In campo sociologico, questo paradigma suggerisce le ipotetiche basi fenomenologiche del razzismo e del sessismo, ad esempio, mostrando come il capitale abbia sempre posto un certo tipo di lavoro al di fuori della remunerazione (il lavoro riproduttivo femminile, ad esempio). Dall’altro, cerca sempre anche il modo di deterritorializzare questi confini, territorializzandone altri. Allo stesso tempo, questo rapporto tra valore e natura problematizza anche i temi dell’espansione e della frontiera. La portata del confine non è più ciò che può includere, il territorio che cattura, e diventa il suo opposto, il territorio che riesce a raggiungere, o “escludere”, senza includere direttamente:
“While all civilizations had frontiers of a sort, capitalism was a frontier. The extension of capitalist power to new spaces that were uncommodified became the lifeblood of capitalism. (…) First, commodity frontier movements were not merely about the extension of commodity relations, although this was indeed central. Commodity frontier movements were also, crucially, about the extension of territorial and symbolic forms that appropriated unpaid work in service to commodity production. This unpaid work could be delivered by humans — women or slaves, for example — or by extra-human natures, such as forests, soils, or rivers. Second, such frontier movements were, from the very beginning of capitalism, essential to creating the forms of cheap nature specific to capitalism, the Four Cheaps.”16
Ma il Capitalocene, la forma-valore e la “natura astratta” non sono solo strumenti di analisi critica e storica: sono contributi a una teoria della crisi. In altre parole, è proprio come urgenza che nasce la necessità di contestare politicamente l’Antropocene. Moore si riferisce a una correlazione tra le “grandi frontiere” e l’età d’oro dell’espansione e della crescita capitalista. Con la “chiusura” del mondo, l’inclusione virtuale di tutta la sua superficie nella cartografia geopolitica dei flussi di merci e la sussunzione reale del lavoro umano, il capitale di investimento ha dovuto cercare nel settore finanziario un “rifugio temporaneo”, una “transizione epocale nel capitalismo storico”. Questa transizione non segue solo i cicli di finanziarizzazione di Giovanni Arrighi, dove l’ascesa e la caduta dei successivi centri del capitalismo è legata al passaggio dalla valorizzazione produttiva a quella finanziaria, ma un esaurimento del modello di produttività del lavoro “naturale”. Questo esaurimento è associato da Moore all’aumento dei costi delle risorse naturali nel 2003, legato all’invasione americana dell’Iraq. In altre parole, la crisi economica è anche una crisi ecologica, ed entrambe rappresentano un limite portato dal neoliberismo: “Perhaps counter-intuitively, the neoliberal era favored not a renewed revolution in labor productivity and automated production but its opposite: a grand seizing upon of those life-reproducing frontiers – including those of an emergent “surplus humanity” (Davis, 2006) – in order to squeeze out the last remaining drops of absolute surplus value, and the last remaining frontiers of unpaid work. Not for nothing the neoliberal era has been defined by taking first, and making second – a magisterial final act of redistribution without productivity revolution.”17
Alcune discussioni teoriche sul Capitalocene
Ian Angus, autore del blog Climate & Capitalism, attivista ecosocialista canadese, critica Morre affermando che:
1) La questione del nome geologico è legata a fenomeni geologici e non sociali o economici (il che sembra suggerire una precedenza geologica di anthropos).
2) Sebbene l’Antropocene sia una conseguenza del capitalismo, non sono la stessa cosa poiché la sussunzione delle complessità delle trasformazioni climatiche e ambientali in un’“età capitalista” indifferenziata allontana una comprensione scientifica di tendenze ed eventi storicamente specifici.
3) La posizione degli “antropocenologi” è abbastanza interessante da poterli inserire come interlocutori nella risoluzione della questione climatica.
Pur avendo una chiara origine dell’Antropocene situata nel capitalismo, le sue domande implicite hanno soppiantato le questioni del capitale. Dipesh Chakrabarty, storico indiano legato ai postcolonial e subaltern studies, in un articolo dell’American Historical Association afferma che: “Some scholars argue that it is not human agency as such that has become a planetary force, climate change is simply a result of capitalist development. “It is capitalism, stupid!” is their refrain. If you pointed out to them that a Soviet-type modernization of the world would have produced very similar consequences, some of them would engage in a lot of theoretic jiu-jitsu to prove that Soviet socialism was actually capitalism in another form! (Of course, one can’t argue about a “true socialism” that nobody has seen.) Some blame climate change—with justice—only on the rich countries of the world. But, going forward, what will matter in terms of emissions is not just the lifestyles of the rich but also the number of additional people who embrace existing models of economic growth and development. And most of these people are in China and India. Is the population explosion in India and China through the 1950s, ’60s, and ’70s to be blamed mainly on the rich countries of the West? I have had that argument put to me but the reasoning never seemed obvious. Climate change at least poses the question of one human history even if we are not politically one.”18
L’argomentazione rende chiara l’ipotesi di Chakrabarty: c’è una specificità umana trans-storica che deve prendere il posto della classe come polo centrale della storia e della politica. Il suo articolo Four Thesis on Climate History adotta un argomento leggermente più approfondito, rendendosi conto, dalla propria esperienza e da quella degli altri, che gli strumenti ei concetti da lui utilizzati per comprendere la storia non sono in grado di affrontare le problematiche che emergono con l’Antropocene. Chakrabarty esemplifica questa situazione utilizzando il modo in cui lo storico Giovanni Arrighi, in Il lungo ventesimo secolo, pubblicato nel 1994, affermava che l’intensificarsi del caos interno al capitale lasciava aperta la possibilità di un crollo dell’ordine mondiale, segnato dallo stesso tipo di guerre della fine della guerra fredda. Tuttavia, 13 anni dopo, Arrighi pubblica Adam Smith a Pechino e le sue preoccupazioni sono molto più legate ai limiti ecologici del capitale. Le tesi di Chakrabarty sono spiegate da una domanda iniziale: “How does the crisis of climate change appeal to our sense of human universals while challenging at the same time our capacity for historical understanding?”19
La risposta a questa domanda si trova in quattro tesi. La prima sostiene che “anthropogenic explanations of climate change spell the collapse of the age-old humanist distinction between natural history and human history”20. L’argomento di questo punto è parallelo alle varie considerazioni riguardo ai vari e successivi inquadramenti della natura nella storia. Anche quando viene presa in considerazione come elemento di azione, come in Braudel o Marx, è nella dimensione ciclica delle stagioni o nella misurazione della propria temporalità, così lenta da diventare indifferente alle considerazioni umane. Da questo crollo emerge la seconda tesi: “The Idea of the Anthropocene, the New Geological Epoch When Humans Exist as a Geological Force, Severely Qualifies Humanist Histories of Modernity/Globalization.”21
Chakrabarty assume, come linea rossa che percorre la storia degli ultimi 250 anni, la storia della “libertà”, assumendo che il significato di questo concetto sia vario e contraddittorio. Nonostante le possibili polemiche, la “libertà”, che spazia dalla rivoluzione francese al movimento per i diritti civili, “stands on an ever-expanding base of fossil-fuel use. Most of ourfreedoms so far have been energy-intensive.”22
L’umanità in quanto agente geologico appare, tuttavia, in contrasto con questa “libertà”, imponendo limiti chiari al suo esercizio ed esigendo nuovi quadri politici e storici che facciano la revisione dei dualismi storici. L’Antropocene è il prezzo che “paghiamo” per la ricerca della libertà? In un certo senso sì, risponde Chakrabarty. E in questa epoca di mutazione geologica: “it is also clear that for humans any thought of the way out of our current predicament cannot but refer to the idea of deploying reason in global, collective life” quindi “we need the Enlightenment (…) even more than in the past.”23
La genesi di questo nuovo Illuminismo nascerà allora da un incrocio tra saperi diversi. Questo è precisamente il contenuto della terza tesi: “The Geological Hypothesis Regarding the Anthropocene Requires Us to Put Global Histories of Capital in Conversation with the Species History of Humans”. È qui che Chakrabarty si riferisce più esplicitamente alle sue riserve sul fare dell’Antropocene una storia della capitale: “But these critiques do not give us an adequate hold on human history once we accept that the crisis of climate change is here with us and may exist as part of this planet for much longer than capitalism or long after capitalism has undergone many more historic mutations. The problematic of globalization allows us to read climate change only as a crisis of capitalist management. While there is no denying that climate change has profoundly to do with the history of capital, a critique that is only a critique of capital is not sufficient for addressing questions relating to human history once the crisis of climate change has been acknowledged and the Anthropocene has begun to loom on the horizon of our present.”24
Con il divenire condizione naturale dell’umano, è necessario richiamare le varie conoscenze che prima erano opposte, per creare una scienza umana della specie. Preventivamente, Chakrabarty cita Darwin per affermare che le specie non sono una categoria fissa, dove c’è un corpo perfetto, e quindi per evitare le possibilità di uso politico della biologia. La specie sarebbe quindi una trasmutazione storica del geist hegeliano, e questo nuovo significato dinamico, che incorporerebbe le varie scienze della contingenza umana nelle dimensioni biogeochimiche, permetterebbe di sfuggire ai determinismi e alle contraddizioni dei dualismi storici. In questa terza tesi comincia a prendere forma la proposta di Chakrabarty: aprire un forum interdisciplinare per l’Antropocene che prefigura un nuovo Illuminismo che metta alla prova i limiti della riflessività dello spirito. La quarta tesi afferma poi che “The Cross-Hatching of Species History and the History of Capital Is a Process of Probing the Limits of Historical Understanding”.25
Si procede verso lo sviluppo dell’idea che in una diversa accezione di specie si possa costruire un nuovo corpo politico. Ciononostante, Chakrabarty riconosce il valore delle varie “ermeneutiche del sospetto”, termine che usa per designare le varie decostruzioni dell’umanesimo e che valorizza nel senso dei contributi che hanno dato all’elaborazione di teorie postcoloniali, ma queste non serviranno ad affrontare le sfide del riscaldamento globale. Primo perché “inchoate figures of us all and other imaginings of humanity invariably haunt our sense of the current crisis”, secondo perchè “the wall between human and natural history has been breached”.26
Chakrabarty conclude il suo manifesto della specie affermando che non emergerà dalla dialettica della storia o come l’universale del capitale: affermerà un approccio globale senza i miti di un’identità globale, perché non cercherà di sussumere particolarità. Nome provvisorio: “storia universale negativa”.
Gli articoli di Jason Moore compaiono alcuni anni dopo questo testo e, in parte, vengono a colmare il vuoto che Chakrabarty affermava esistere nei sostenitori del Capitalocene. Identificando precisi processi all’interno del funzionamento del capitale (forma-valore, lavoro astratto e natura astratta e non solo il suo movimento generale, la globalizzazione) Jason Moore trae un argomento più preciso di quello di Chakrabarty. La critica di Marx al capitale è complessa, ampia e con le contraddizioni ei cambiamenti di posizione che ogni impresa di questo calibro avrà. Chakrabarty e Moore sembrano impegnarsi in diverse critiche marxiste. La prima segue la classica lettura economicista, la seconda si basa sull’esegesi degli anni ’60 che, basandosi su altre versioni di testi classici e opere di recente scoperta, i Grundrisse, ad esempio, stabiliscono nuovi poli teorici, come la tedesca Neue Marx Lekture o l’italiano Operaismo. Moore colloca l’evoluzione degli elementi coinvolti nella produzione e nello scambio di merci non in un campo di contingenza tra diverse occupazioni e sfruttamenti, ma all’interno di un processo in cui la ricerca di tassi di profitto sostenibili, fondati su metodi specifici di appropriazione, costruisce efficacemente un determinismo del capitale, dove continuerà indefinitamente a cercare margini di profitto più elevati.
Questi movimenti fanno del capitale un’agente particolare, con i suoi momenti, contraddizioni e tensioni, che nel corso della storia umana assumono contorni e conseguenze sociali, biologiche e geologiche differenti. In altre parole, il capitale non è un mero processo dinamico di imperfetta circolazione del valore, ma un processo che sussume possibilità dell’azione individuale e che quindi incorpora, forse non esclusivamente, l’agente geologico che l’Antropocene attribuisce alla figura dell’uomo e alla sua libertà. Chakrabarty assume la libertà come invarianza storica e come universale moderno, ma non specifica cosa costituisce il nucleo invariante ed equivalente di questa libertà.
L’ipotesi umanista, secondo la quale le ipotesi storiche della libertà corrisponderebbero a un’essenza universale che sarebbe esattamente la giusta misura dell’essere umano, sembra rendere equivalenti una serie di cose radicalmente diverse. E il concetto di libertà, come quello della storia e del capitalismo, viene appiattito in un significante fluttuante e disposto come fondamento epocale. L’idea di un forum che segna la fine dell’oscurantismo ecologico, di un’assemblea costituente scientifica che, riunendo i vari saperi, stabilisce i paradigmi della nuova era dell’uomo, un’ONU sul clima, è interessante nel senso che riconosce le molteplici crisi del presente e poiché cerca esplicitamente di incorporare la filosofia del XX secolo in un senso universalistico della storia. Ma è, come progetto, di per sé, l’espressione diretta della stessa particolare concezione politica e paradigmatica che cerca di superare. La conoscenza embrionale delle forme scientifiche e politiche che d’ora in poi sosterranno le interazioni tra le varie nature prenderà forma nella materialità dei processi in atto e assumerà gli stessi decentramenti della maggior parte dei fenomeni contemporanei, nonostante tutte le ipotetiche centralizzazioni che possono essere richieste in questo processo.
Quale nuovo patto sociale o processo costituente sarà possibile avendo come oggetto le spettrali rudimentali figure di noi stessi? Che la caduta di questo soggetto corrisponda all’emergerIe di una possibilità di “specie” è qualcosa di complesso, anche dopo gli avvertimenti di Chakrabarty di riferirsi a un “essere-specie” aperto, algoritmico, e non a una serie di parametri biometrici e/o fenotipici, poiché richiama proprio l’intero problema della biopolitica, che Chakrabarty non menziona affatto nel suo articolo. Ci sono, tuttavia, diversi spunti interessanti da recuperare nelle tesi di Chakrabarty, a cui, in ogni caso, va il merito di aver cercato di approfondire le tesi della proposta dell’Antropocene.
Sono disponibili in italiano tre libri di Moore, due editi da Ombre Corte, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, e Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, e uno edito da Feltrinelli, Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo, quest’ultimo scritto assieme a Raj Patel.
Note
1The Capitalocene Part I: On the Nature & Origins of Our Ecological Crisis, pag.2
2Ibid, pag.3
3Ibid, pag.4
4Ibid, pag.4
5Ibid, pag.6
6Ibid, pag.7
7Ibid, pag.7
8Ibid, pag.9
9Ibid, pag.11
10Ibid, pag.17
11Ibid, pag.19
12Ibid, pag.21
13Ibid, pag.22
14Ibid, pag21
15TheCapitalocene. Part II: Abstract Social Nature and Limits to Capital, pag.2
16Ibid, pag.5
17Ibid, pag.39
18HumanAgency in the Anthropocene
19FourThesis on Climate History, pag.201
20Ibid, pag.201
21Ibid, pag.207
22Ibid, pag.208
23Ibid, pag.210-211
24Ibid, pag.212
25Ibid, pag.220
26Ibid, pag.221